Venezia 71. Quanto è brutta la guerra, un’amicizia speciale tra un bambino e un cane e lo Shakespeare in salsa bikers
La 71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si è ormai conclusa, ma continuiamo a fornirvi le nostre impressioni sui film visti al Lido con recensioni, lunghe o brevi. Tra le cose viste negli ultimi giorni c’erano Nobi – Fires on the Plain, del regista cult Shinya Tsukamoto, ormai un vero affezionato della Mostra di Venezia, Cymbeline di Michael Almereyda, che rielabora in chiave moderna l’omonima tragedia di Shakespeare, e il turco Sivas di Kaan Mujdeci.
Nobi, o meglio, Fires on the Plain, come è conosciuto per il pubblico internazionale, è uno Tsukamoto minore ma in piena regola. Presentato nella sezione in Concorso, Nobi si pone come remake di un omonimo film del 1959 diretto da Kon Ichikawa e ci racconta la guerra e i relativi orrori in maniera così diretta da togliere l’appetito al più fervente spettatore di splatter e gore. Tsukamoto pedina un soldato che si muove nella giungla giapponese, alle prese con una guerra senza tempo che è probabilmente LA guerra, una metafora dell’orrore, morte e distruzione. Questo omino, un po’ imbranato e in balia degli eventi, è alla ricerca di cibo, di patate, per l’esattezza, perché gli hanno detto che in una zona ne crescono molte. E invece dovrà combattere, sopravvivere, tra deflagrazioni che smembrano corpi e l’ombra del cannibalismo che è sempre più invasiva.
La firma di Tsukamoto si lascia riconoscere in molti punti perché Nobi è cinema anarchico, l’underground di un autore che si diverte a fare l’anticonformista. Allo stesso tempo Nobi però è un’opera riuscita a metà perché, se è vero che l’affezionato del cinema tsukamotiano si divertirà a ritrovare schizzi di sangue e smembramenti a go-go, è vero anche che si tratta di un film povero di contenuti e con una morale piuttosto scontata. Cosa vuole dirci Nobi? Che la guerra è brutta e genera morte atroce. Stop.
Inoltre la veste è decisamente troppo indie anche per un anticonformista come il regista di Tetsuo, che ormai ha una certa fama e la possibilità di lavorare anche con capitali maggiori.
Come esercizio di stile tanto di cappello, come opera di un autore che ha quasi 30 titoli all’attivo è decisamente dimenticabile.
Altro titolo in Concorso ma di ben più alta caratura, Sivas, scritto e diretto da Kaan Mujdeci e vincitore del Premio Speciale della Giuria.
Sivas racconta la vita di un bambino in un villaggio turco che è alle prese con la recita scolastica e la grande delusione di non aver ricevuto il ruolo di protagonista. Un giorno, partecipando come spettatore a un lotta tra cani, raccoglie l’animale in fin di vita che ha perso la competizione ed è stato lasciato lì a morire. Il bambino cura il cane, lo rimette in sesto e si occupa di lui giurando a se stesso che mai e poi mai l’avrebbe lasciato combattere ancora una volta. Ma il destino ha altri piani per l’animale.
Mujdeci ha un soggetto accattivante tra le mani, una sorta di Belle & Sebastien in versione per adulti, e lo sa sfruttare a meraviglia. Il film è avvincente, divertente, tenero e amaro. Il bambino protagonista, l’esordiente Ozan Celik, è bravissimo e offre alcuni momenti di grande comicità (come non ridere di gusto davanti al suo denudamento per protesta?) e altri di intensità davvero notevoli.
Un film che arriva diretto e non si fa dimenticare.
Non possiamo dire la stessa cosa per Cymbeline, modernizzazione del Cimbellino di William Shakespeare e presentato in anteprima internazionale nella sezione Orizzonti.
Cymbeline è semplicemente una delle cose peggiori che si siano viste in questo Venezia 71, se non la peggiore in assoluto, un maldestro, noioso e a tratti ridicolo tentativo di rifare il Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann. Perché la “grande idea” del regista Michael Amereyda era di far parlare i personaggi proprio con i versi di Shakespeare ma ambientare la vicenda ai giorni nostri, in un contesto pulp. Disastro. E pensare che Almereyda è recidivo, visto che nel 2000 ci aveva già provato con Hamlet 2000, dal quale ricicla pure il povero Ethan Hawke, che qui è l’unico a infondere un briciolo di carisma nel suo personaggio. Per il resto abbiamo un visibilmente svogliato Ed Harris, un’evanescente Milla Jovovich, John Leguizamo che ormai è utilizzato male da chiunque, Anton Yelchin che fa una particina e la terribile Dakota Johnson nel ruolo di protagonista e che presto rivedremo (ahinoi) in Cinquanta sfumature di grigio.
Si fatica a seguire la storia, il linguaggio pomposo shakespeariano crea una barriera con il pubblico e le risate arrivano involontarie.
Un disastro.
Roberto Giacomelli
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