Heart of a Dog, la recensione
Laurie Anderson, moglie di Lou Reed, è una grandissima artista dai molteplici volti, che vanno dalla musica alla visual art, e Heart of a Dog, in concorso alla 72° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, rappresenta il risultato della sua straordinaria attività poliedrica. Non è alla sua opera prima (ha già alle spalle una buona esperienza nel cinema sperimentale), ma è forse al suo lavoro più importante.
Lo sperimentalismo della Anderson non è underground; è moderno, schietto, casalingo, eppure non le si può non riconoscere uno straordinario talento. La regista si è definita spesso una “storyteller”, e infatti il film è soprattutto un testo. Un testo crossmediale che ha la forma di un visual notebook, che si serve di un vasto repertorio di materiale eterogeneo, che va dai video casalinghi di una semplice telecamera “da casa” a delle registrazioni di videosorveglianza. Ciò che colpisce non è la qualità video, ma il modo in cui la regista utilizza il materiale che ha a disposizione.
Heart of a Dog è costruito come una lettera che la regista indirizza a Lolabelle, il suo terrier da poco scomparso, con conseguente e immaginaria risposta della stessa Lolabelle. La voce fuori campo della Anderson legge questo testo che, più che un monologo, ha la forma di un racconto breve. Non ci troviamo di fronte a un dialogo intimo tra una donna e il suo cane, ma ad un testo pensato per una mise en scène, per un pubblico.
Più che un film sperimentale, Heart of a Dog è un’istallazione visuale in un museo e, a tratti, sfocia persino nel documentario. E’ un’opera quasi godardiana, in cui al dialogo donna-cane viene a sostituirsi il dialogo donna-mondo: infatti, in una prima parte, la regista accenna persino ad eventi storici contemporanei, ma la scomparsa del suo cane lascia poi un vuoto enorme che la porta quasi ad estraniarsi dalla realtà.
Claudio Rugiero
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