Venezia80. La bête, la recensione
In un futuro dominato dalla AI (Intelligenza Artificiale), dove le emozioni vengono vissute come una malattia, Gabrielle (Léa Seydoux) decide di sottoporsi alla procedura di purificazione per disfarsene. Per farlo, deve rivivere tre delle sue vite precedenti e l’incontro con il suo grande amore: Louis (George MacKay).
Non è semplice parlare di un film come La bête senza rischiare di abbandonare la strada dell’oggettivo per il soggettivo. Se infatti il film di Bertrand Bonello rappresenta per certi aspetti una grande prova registica, dall’altro lato il rischio è che l’eccessiva pressione interpretativa a cui viene sottoposto lo spettatore, finisca per appiattire anche quanto di ammirevole ci sia nell’opera.
Ispirato alla novella La bestia nella giunga del 1903 di Henry James, considerata forse il capolavoro dello scrittore, sul piano registico La bête è un minestrone di generi tra cui spiccano: dramma in costume, thriller e distopia fantascientifica, chiamati a rappresentare -idealmente- i tre momenti “chiave” della vita della protagonista. Questi sono individuati all’interno di un percorso che la dovrebbe condurre alla “purificazione” emotiva, attraverso l’ormai abusatissimo (vi prego pensate a qualcos’altro) espediente della vasca di deprivazione sensoriale.
Bonello porta in scena le “tre vite” di Gabrielle, ambientate rispettivamente nel 1910 a Parigi, nel 2014 a Los Angeles e nel 2044 di nuovo a Parigi, padroneggiando in modo esemplare le formule narrative dei generi di riferimento e creando tre momenti che, ricostruiti, rappresenterebbero interessanti e riusciti cortometraggi.
L’amore per Louis, cuore pulsante dell’emotività soffocata e rifiutata di Gabrielle, è presentato nelle tre occasioni in forma diversa, con un’escalation che porta dal delicato corteggiamento del 1910, al crudo rifiuto affettivo del 2014, al desiderio di totale annientamento emotivo del 2044. Uno scenario catastrofico, come la “catastrofe” che Gabrielle sente aleggiare su di sé durante tutta la procedura e che richiama come un mantra, una bestia feroce in agguato, pronta a dilaniarla.
Particolare prova di maestria è la messa in scena horror/thriller riservata alla Gabrielle del 2014, dove l’ambiente claustrofobico e la tensione palpabile esplodono in un loop di orrore incomprensibilmente magnifico.
Metafora del disagio e dell’incapacità di espressione sentimentale sono le bambole, che ritornano in forma diversa nelle varie epoche –prima inanimate, poi parlanti e infine personificazione imperturbabile dell’essere umano- e che, di contraltare alla protagonista, rappresentano l’ “involuzione” dell’essere umano e l’allontanamento progressivo dell’emotività e dall’umanità stessa.
Léa Seydoux è straordinaria in un ruolo tutt’altro che facile, ma è George MacKay ad offrire la performance che verrà ricordata.
Il problema de La bête è la tanta, troppa, carne che mette al fuoco e forse una sceneggiatura a tratti pasticciata che rende davvero difficile seguire una storia che avrebbe reso molto meglio con molto meno. Pur comprendendo la volontà di realizzare un film dove l’elemento evocativo, la parte lasciata all’interpretazione dello spettatore, è centrale, qui si sconfina in un criptico ingiustificato che non giova alla visione.
Peccato, per quello che in questa 80ª Mostra del Cinema di Venezia poteva aspirare ad essere un rivale al monumentale Poor Things! di Lanthimos.
Susanna Norbiato
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