El abrazo de la serpiente, la recensione

“Se questo è il caso, non mi resta altro che scusarmi e invocare la tua comprensione, giacché la varietà di cose a cui ho assistito durante queste ore fantastiche è stata tale che mi sembra impossibile descriverla con parole che facciano capire agli altri tanta bellezza e splendore; so soltanto che, come tutti coloro che hanno visto squarciarsi il pesante velo che li accecava, quando ritornai in me, ero diventato un altro uomo.”

È con queste parole toccanti che uno dei due esploratori protagonisti della pellicola cerca di condividere con il mondo un pezzo di magia e vita che ha avuto il privilegio di respirare e assaporare tra quel paradiso di terra e piante conosciuto come Amazzonia.

Sto parlando del riuscitissimo film di Ciro Guerra candidato all’Oscar 2016 come miglior film straniero, intitolato El abrazo de la serpiente, il quale è stato presentato al Bergamo Film Meeting e arriva nelle sale italiane distribuito da Movies Inspired.

Girato in uno straniante bianco e nero, il regista si prefigge l’obbiettivo di raccontarci una parte di pianeta ancora in larga parte inesplorata come l’Amazzonia, mostrandocela dal punto di vista degli indigeni e concentrandosi sui riti, le credenze e le leggende delle persone che abitano questi posti magnifici e incontaminati. Il risultato è un’esperienza visiva e interiore di raro fascino, che difficilmente lascerà indifferenti.

La storia che viene narrata è quella di due scienziati ed esploratori Theodor Koch-Grunberg e Richard Evans Schultes, i quali a distanza di circa quarant’anni l’uno dall’altro hanno incontrato e profondamente conosciuto lo sciamano “Karamakate” (Nilbio Torres Antonio Bolivar), ultimo discendente della sua tribù.

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I due scienziati, interpretati rispettivamente da Jan Bijvoet Brionne Davis, si recano in Amazzonia in periodi diversi, ma accomunati dallo stesso obbiettivo, ovvero quello di cercare la yakruna, una pianta sacra e dai potentissimi poteri.

Quello che per i due avventurieri era cominciato come un viaggio di lavoro dagli scopi prettamente scientifici, diventerà ben presto l’esplorazione di una cultura pressoché sconosciuta e la ricongiunzione con la loro essenza più primordiale.

I coprotagonisti della pellicola rappresentano i tanti vizi e difetti che la civiltà occidentale ha sempre avuto nei confronti di questi popoli e in generale verso ciò che non conosce: diffidenza, disprezzo e inaffidabilità, lasciando così carta bianca all’indigeno Karamakate il quale, giocando in casa e conoscendo le regole di quel austero paradiso, prenderà le veci di guida fisica e spirituale, (così come fece Virgilio per Dante) pretendendo da loro la massima disponibilità a intraprendere un viaggio interiore affascinante e onirico.

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Il cinema ci ha spesso mostrato l’Amazzonia e i suoi abitanti nei loro lato più estremi e brutali, per esempio nel caso dei “cannibal movie” come il datato Cannibal Holocaust o il più recente e controverso The Green Inferno.

Il regista Ciro Guerra, invece, si cimenta in qualcosa di profondamente diverso, immergendoci a testa in giù e fino alle caviglie in un viaggio esistenziale e sensoriale che ci mostra una cultura a noi molto lontana e lo fa nel modo più onesto e naturale possibile. Egli riesce nell’intento di creare un ponte ideale con la nostra civiltà, facendoci riflettere su quanto l’occidente e l’uomo moderno con esso, abbiano perso il loro lato più profondo e forse immacolato.

Ottime le prove dei due attori professionisti Jan Bijvoet e Brionne Davis, perfettamente calati nella parte di persone spesso dubbiose e incredule verso ciò a cui stanno per assistere, e altrettanto valide quelle degli attori indigeni, che conferiscono credibilità e realismo alla pellicola. Dal punto di vista registico, l’elegante e contrastante bianco e nero scelto da Ciro Guerra e perfezionato da David Gallego è il giusto accompagnamento per un viaggio senza tempo attraverso la bellezza di questi luoghi, che vengono immortalati da alcune panoramiche mozzafiato ed enfatizzati dalle perfette musiche di Nascuy Linares.

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El abrazo de la serpiente è un omaggio rispettoso e approfondito a un luogo, a un popolo e alla loro storia, spesso fatto di ingiustizie e sofferenza. Un film dai ritmi lenti e rilassanti, sempre in bilico fra sogno, realtà e su più piani temporali, quindi potenzialmente indigesto a coloro che dal cinema vogliono trarne solo divertimento e intrattenimento spiccio. Questa piccola grande pellicola avrà l’onore di fare a gara con film del calibro de Il figlio di Saul e assieme a quest’ultima incarnare un solido baluardo volto alla salvaguardia della sensibilità umana, sempre più cieca nei confronti di quello che capitalisticamente parlando non le appartiene. La nostra essenza spirituale è qualcosa che non potrà e non dovrà mai essere commercializzata; “forse più di qualcuno però, ci ha già incollato sopra un prezzo e una scadenza”. Questo è il tanto intangibile quanto importante lascito che la poesia audiovisiva di Ciro Guerra ci ha donato; facciamone buon uso.

Filippo Chinellato

PRO CONTRO
  • Registicamente coinvolgente.
  • Riflessivo al punto giusto.
  • Ottime scelte stilistiche e musiche che rendono perfettamente l’atmosfera rarefatta.
  • Attori scelti con grande attenzione e magistralmente calati nella parte.
  • Troppi sbalzi narrativo-temporali che alla lunga possono stancare gli spettatori più pigri.
  • Ritmi troppo lenti e compassati.
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Valutazione: 8.0/10 (su un totale di 1 voto)
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