Everything Everywhere All At Once, la recensione

Il multiverso è un concetto di cui conosciamo spaventosamente poco”, diceva Stephen Strange in Spider-Man: No Way Home confermando nella Fase 4 del Marvel Cinematic Universe l’idea che l’Universo conosciuto sia solo uno di una serie di mondi alternativi che si sviluppano in parallelo. Un concetto che da un paio di decadi affascina molto il settore fantastico e fantascientifico cinematografico, sdoganato da cult come Donnie Darko e Mullholland Drive e rinforzato dai successi di Star Trek e, recentemente, dai film Marvel Studios. Inserendosi proprio in questo mini-filone argomentativo, arriva al cinema grazie a I Wonder Pictures, un piccolo film che ha fatto registrare alla prestigiosa A24 dei risultati economici da record, parliamo di Everything Everywhere All at Once diretto dal duo Daniel Kwan e Daniel Scheinert, meglio noto come The Daniels.

La grigia routine di Evelyn Wang, ultraquarantenne di origini cinesi e proprietaria di una lavanderia a New York, viene sconvolta quando suo marito Wayland, anzi una versione alternativa di Wayland, le si presenta chiedendole aiuto per salvare il multiverso, dal momento che un potente essere interdimensionale sta tentando di far collassare tutti gli universi. Inizialmente spaesata, Evelyn dovrà imparare a connettersi alle sue versioni alternative per imparare da ognuna di loro le abilità necessarie a impedire un’implosione del multiverso.

Everything Everywhere All at Once è diventato in breve tempo un “caso”, riscuotendo molti pareri positivi dalla critica internazionale, soprattutto quella del cinema di genere, e trasformandosi nel film più redditizio per la casa di produzione newyorkese votata al cinema indie. Un entusiasmo che lascia un po’ spaesati e perplessi – almeno chi scrive – poiché il film scritto e diretto dai Daniels non è ne particolarmente innovativo ne portatore di chissà quale bontà tecnico/artistica.

Daniel Kwan e Daniel Scheinert si sono formati nell’ambiente dei videoclip musicali e, a livello cinematografico, si sono fatti conoscere con Swiss Army Man, ovvero quel bizzarro film in cui Daniel Radcliffe interpretava un cadavere che, scorreggiando, si trasformava in una specie di motoretta col turbo. Evidentemente appassionati di cultura nerd, soprattutto proveniente dall’Estremo Oriente, i Daniels hanno voluto omaggiare tanto il cinema di arti marziali di Hong Kong quanto la sottocultura manga e hanno frullato in questo loro secondo lungometraggio di finzione tutto quello che in qualche modo potesse richiamare questi elementi. Però, come spesso accade quando degli americani che non si chiamano Quentin Tarantino provano a trasporre la cultura pop nippo-cinese, ne viene fuori qualcosa di estremamente diverso dall’originale, una versione distorta ed estremamente grottesca.

Con Everything Everywhere All at Once si pesca a piene mani da quelle influenze action del cinema cinese e dalle trovate esageratamente cartoonesche degli anime giapponesi, ma il tutto è perfettamente filtrato da quella lente ipertrofica e volgarotta che contraddistingue certe produzioni yankee.

A livello narrativo, il film dei Daniels ricorda tanto, tantissimo The One, il bel fanta-action con Jet Li e Jason Statham che nel 2001 aveva anticipato in maniera lungimirante tante trame sul multiverso, con la differenza che qui la protagonista non deve uccidere le se stesse alternative per acquisirne i poteri ma semplicemente connettersi ad esse tramite portali attivabili con modi bizzarri e imbarazzanti, come tagliarsi con la carta, mangiare del burrocacao o infilarsi oggetti su per il sedere. Da questa premessa, i Daniels vanno a pescare a piene mani nello stile cartoonesco ed esponenzialmente sopra le righe di Stephen Chow (Shaolin Soccer e Kung-Fusion, per chi non collegasse il nome), ma traducendo le trovate surreali e felicemente infantili dell’autore di Hong Kong in gag triviali votate all’eccesso.

Se da una parte sono genuinamente divertenti le idee di un universo popolato da sassi senzienti e uno in cui il topolino di Ratatouille è sostituito da un procione, altre intuizioni lasciano alquanto basiti, come la dimensione in cui le dita sono sostituite da wurstel (e ci si accoppia infilando i wurstel in bocca, con canto di eiaculazioni di ketchup e senape) e l’upgrade generato dai dilatatori anali, doverosamente utilizzati in una scena di combattimento francamente disgustosa. Se l’ispirazione è dunque quella della cultura pop asiatica, il risultato è spesso più vicino a certe gag della Troma, epurate però di qualsiasi violenza o scorrettezza politica.

Posso capire che a qualcuno la cosa possa essere risultata divertente, perfino geniale, ma alla lunga – il film dura terroristicamente 140 minuti! – il gioco stanca. E infatti uno dei difetti maggiori di Everything Everywhere All at Once è l’estrema ridondanza: il film si ambienta quasi unicamente in un ufficio fiscale, in cui fanno incursione, di volta in volta, personaggi “posseduti” dalle loro versioni multiversali e se le danno di santa ragione.

All’inizio ok, le trovate possono piacere o meno ma c’è un certo estro narrativo, ma due ore e venti minuti così possono seriamente sfiancare. Anche perché il tutto si riduce, negli ultimi minuti, in una gigantesca metafora dell’amore famigliare e dell’importanza dell’unione tra generazioni, con un colpo di coda che riesce a banalizzare e portare su lidi da Famiglia Cristiana un film che sembrava volerci dire tutt’altro, come se il finale fosse stato pensato e cucito lì in un secondo momento.

Scene d’azione ottime, con alcune coreografie degne del miglior film di kung-fu. Non a caso a vestire i panni della protagonista c’è Michelle Yeoh, una vera istituzione nel cinema di arti marziali di Hong Kong (La tigre e il dragone, La congiura della pietra nera) che ha poi trovato fortuna a Hollywood (La mummia – La tomba dell’imperatore dragone, Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli). Ad affiancarla troviamo un ritrovato Ke Huy Quan (ricordate Data de I Goonies e il piccolo Shorty di Indiana Jones e il tempio maledetto?) e Jamie Lee Curtis in un ruolo davvero fuori di testa.

A conti fatti, Everything Everywhere All at Once è un film difficilissimo da vendere e con dei difetti così evidenti da risultare perfino elementari, eppure, per una serie di mistiche connessioni astrali, questa sorta di parodia del cinema fanta-action che ha trai produttori anche i fratelli Russo di Avengers: Endgame ha imbroccato la strada giusta e si è trasformato in un cult a portata di “cinefilo nell’era dell’internet”.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Le scene d’azione.
  • Dura 2 ore e 20 effettive, ma quelle percepite sono almeno 5.
  • L’inutile volgarità.
  • Ripetitivo all’inverosimile.
  • La morale da “volemose bene” finale appare appiccicata con la colla stick Pritt.
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