High Life, la recensione

High Life

In genere, quando parliamo di cinema di fantascienza possiamo fare una distinzione in due macro settori che ci riconducono direttamente alla rivoluzione fantascientifica avvenuta nel decennio che collega la fine degli anni ‘60 con la fine degli anni ‘70. Da una parte abbiamo il grande cinema d’intrattenimento che ha ricodificato il linguaggio della fantascienza da botteghino e ha fatto scuola in ogni dove, inaugurando saghe che ancora oggi sopravvivono. Parliamo di quell’ideale arco temporale di completamento che inizia nel 1968 con Il Pianeta delle Scimmie e si chiude nel 1977 con Guerre stellari. Dall’altra abbiamo la fantascienza più filosofica, adulta, complessa, autoriale – se mi passate il termine – che irrimediabilmente prende il “la” sempre nel 1968 con 2001: Odissea nello spazio e chiude il cerchio nel 1979 con Stalker passando nel 1972 per il fondamentale Solaris dello stesso Tarkovskij. Un decennio di incredibile sperimentazione e ridefinizione dei linguaggi fantascientifici su cui ancora oggi si fondano la maggior parte dei film di fantascienza che vengono prodotti. Non fa eccezione High Life di Claire Denis che si aggancia al secondo settore che ho descritto, quello della cosiddetta “fantascienza d’autore”.

Presentato nel 2018 al Toronto International Film Festival e, quasi in contemporanea, con grande successo al Festival Internazionale del Cinema di San Sebastian, dove ha vinto il prestigioso premio FIPRESCI, High Life racconta la storia di un piccolo gruppo di detenuti, condannati a morte, che vengono spediti nello spazio per partecipare allo studio di un buco nero, attraversandolo. La conferma della condanna a morte, dunque. Ma nell’astronave c’è anche la dottoressa Dibs, dal comportamento borderline non troppo dissimile dai criminali con cui condivide l’avventura, che sta tentando di creare la vita attraverso l’inseminazione artificiale.

Una scansione a-temporale che alterna tre distinti piani senza necessariamente seguire una logica narrativa (iniziamo quasi dalla fine, poi il film si riavvolge ma il tempo del racconto a volte si interseca) ci mette nei panni di Monte, un ragazzo colpevole dell’omicidio della sua fidanzata, apatico, sconsolato, eppure l’unico su quell’astronave apparentemente normale, sano. Conosciamo Monte solo con una bambina neonata, Willow, impegnato a riparare i frequenti guasti che la loro “bara” fluttuante presenta, mentre si fa largo tra cadaveri sparsi ovunque. Un padre, forse, in una situazione del tutto eccezionale e paradossale.

Con lo scorrere dei minuti capiamo chi è Monte, perché è nello spazio, chi sono i cadaveri che si prodiga a disperdere, pian piano, nel nulla cosmico, perché c’è una bambina con lui. Claire Denis non si preoccupa troppo di dare risposte, ma fornisce indizi, sparge la narrazione di dettagli che lungo le quasi due ore di durata costruiscono un quadro pressoché completo. Tutti noi sappiamo perfettamente come High Life terminerà e qual è lo spirito metaforico, esistenziale che muove l’intero racconto. Nel suo iter disordinato, complesso, anche pesante (pensiamo al ritmo molto lento), High Life è un film semplicissimo, quasi essenziale, che parla della vita, della scoperta, della rassegnazione, della determinazione e della morte. Un film che vive di ossimori e che trova in questa sua compiaciuta autorialità un fascino particolare che gli dona una personalità unica.

High Life non è un bel film nel senso stretto e più banale del termine, a tratti è perfino respingente nella sua ridondanza, nella sua esasperante lentezza, nel nulla di fatto a cui conduce. Però ha carattere. La Denis possiede un gusto estetico viscerale e affascinante che sa valorizzare il minimalismo delle scenografie, la recitazione degli attori per sottrazione, la morbosità erotica di alcune scene che normalmente sarebbero repellenti e che invece qui risultano incredibilmente attrattive.

High Life si bea del brutto e lo rende seducente, la Denis, in questi termini, sembra aver studiato la lezione del miglior Cronenberg restituendola in formato esistenziale e filosofico. I più attenti noteranno subito la somiglianza tra High Life e Dante 01 (2008) di Marc Caro, ma lì dove quest’ultimo risultava impacciato perché chiaramente Caro si nutre di un cinema più d’intrattenimento, High Life risulta vincente perché mostra una sensibilità e una credibilità più vicine agli intenti stessi del film.

Il film della Denis conferma il talento di Robert Pattinson, che ormai si destreggia efficacemente tra il cinema indie e quello mainstream, e mette al suo fianco una sempre affascinante Juliette Binoche in quello che è forse il ruolo più disturbante e disturbato della sua carriera.

Capace di suscitare fascino e repulsione nello spettatore, High Life farà la felicità di chi nel cinema di fantascienza predilige il contenuto al contenitore, la riflessione allo spettacolo. Ma se siete della vecchia e cara scuola esplosioni, mostri spaziali ed eroismo, High Life potrebbe deludervi tantissimo!

High Life arriva nei cinema italiani il 6 agosto 2020 distribuito da Movies Inspired.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • È coerente dall’inizio alla fine con una visione autoriale del racconto di fantascienza.
  • Robert Pattinson e Juliette Binoche.
  • Sa turbare e disturbare.
  • All’inizio spaesa nel suo girovagare senza un nesso temporale.
  • È lento, a tratti anche noioso.
  • Sappiamo fin dall’inizio dove andrà a parare.
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Valutazione: 7.0/10 (su un totale di 1 voto)
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High Life, la recensione, 7.0 out of 10 based on 1 rating

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