Non aprite quella porta 3D, la recensione

Dopo essere scampata al massacro di cui sono stati colpevoli Leatherface e la sua famiglia di assassini cannibali, Sally Hardesty ha denunciato i fatti alle autorità. Lo sceriffo Hooper si è quindi diretto alla fattoria dei Sawyer per fare giustizia ma una folla inferocita di paesani ha avuto la meglio mettendo a ferro e fuoco l’abitazione, uccidendo gli abitanti e appiccando il fuoco all’edificio. Solo una neonata viene salvata e adottata da uno dei giustizieri la cui moglie non poteva avere figli. Una ventina di anni dopo, quella bambina, Heather, riceve un’eredità da una nonna che non sapeva di possedere, l’ultima sopravvissuta della famiglia Sawyer ad abitare ancora in Texas. Heather scopre così di essere stata adottata e decide di recarsi a Newt, in Texas, per riscuotere l’eredità di sua nonna Verna. Ad accompagnarla nel viaggio ci sono tre suoi amici, un viaggio che farà scoprire alla ragazza i terribili segreti della sua famiglia!

Fin dal principio la saga di Non aprite quella porta si basa sul concetto di famiglia, mostrando come l’istituzione fondamentale e formativa per ogni essere umano possa essere un tabernacolo di orrori. Tutto il marcio della società americana era racchiuso simbolicamente in quella famiglia di onesti lavoratori, assassini e cannibali per diletto, che difendevano a pugno duro la proprietà e l’unione del loro focolare domestico. Da quando Tobe Hooper ha donato all’immaginario collettivo degli spettatori questa shockante visione dell’America rurale, specchio distorto di ogni buon insegnamento formativo, il cinema dell’orrore non è più stato lo stesso.

Il capolavoro che risponde al titolo di The Texas Chainsaw Massacre, Non aprite quella porta da noi, è datato 1974 e da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, una vera piena che ha trascinato con se sequel, remake, prequel e cloni a volontà finché nel 2013 è stata messa in cantiere un’operazione singolare che per certi aspetti ha anticipato l’idea che sta alla base del rilancio di Halloween: un sequel diretto al film di Hooper del ’74 che in un solo colpo cancella 30 anni di franchise e si ricollega all’originale, creando quella che possiamo definire una timeline alternativa sulle vicende di Faccia di cuoio e famiglia.

A dire il vero non è che ci volesse molto a rimettere ordine in questa saga, visto che il bellissimo Non aprite quella porta del 2003 e il suo prequel fanno storia a se, mentre i capitoli 3 e 4 “ufficiali” sono quasi dei remake mascherati che sequel veri e propri. L’unico che ne esce “danneggiato” è il divertente e sottovalutato Non aprite quella porta – Parte 2, diretto con un piglio ironico sempre da Hooper nel 1986, che si proponeva come sequel al film del 1974 e che ora con Non aprite quella porta 3D risulta spazzato via dall’arco degli eventi.

Non aprite quella porta 3D nasce nel momento in cui i diritti sul franchise posseduti dalla Platinum Dunes – che aveva confezionato lo pseudo remake del 2003 e il suo prequel del 2006 – sono scaduti e tornati nelle mani di Kim Henkel e Robert Kuhn; a quel punto il presidente della Twisted Pictures Carl Mazzocone, orfano già da un paio di anni della fortunata saga Saw, intuiva le potenzialità di Leatherface e famiglia e non ci ha pensato due volte a riportarli sul grande schermo.

In odore di incassi assicurati, Mazzocone ha acquistato i diritti lasciando un ruolo produttivo fondamentale proprio a Henkel e Kuhn con l’idea di riportare tutto alla storia originaria.

Il risultato è un film discreto, lontanissimo dall’idea di malsana perfezione hooperiana e tantomeno da quanto fatto da Nispel e Liebesman con il dittico Platinum Dunes. Se vogliamo, un piccolo passo avanti nell’ottica di questa saga, che in primis ha sempre sofferto di incredibile ripetitività a causa di riavvii ufficiali o meno.

La forza di questo nuovo capitolo sta nel suo collegamento al film originario, che nei primi minuti viene ripreso con il footage originale e proseguito con scene girate ad hoc che ci mostrano cosa è accaduto immediatamente dopo la fuga di Sally dalla fattoria dei Sawyer. Folla inferocita di frankensteiniana memoria, assedio come in un western di Peckimpah, famiglia di freaks pronta a vender cara la propria pelle in modo molto simile al prologo di The Devil’s Rejects – La casa del diavolo e rogo purificatore che dovrebbe mettere la parola fine sull’intera vicenda, che noi però sappiamo essere solo un ulteriore inizio. Insomma, una partenza grandiosa, soprattutto per chi è legato al film del 1974, dal quale vengono perfino recuperati il Leatherface originale Gunnar Hansen (qui nei panni di un barbuto redneck munito di fucile) e John Dugan, che torna a vestire i panni dell’incartapecorito Nonno Sawyer. C’è anche Bill Moseley, che in Non aprite quella porta – Parte 2 era il magnifico Chop-Top (Testa di latta) e qui riprende il ruolo del defunto Jim Siedow, ovvero Drayton, il leader del clan. Roba da leccarsi i baffi per ogni vero appassionato del film di Hooper, questo è poco ma sicuro.

Poi, dopo uno sbalzo temporale di una ventina d’anni, inizia la vicenda vera e propria di questo sequel e ci vengono presentati i personaggi di questa nuova avventura, che sono i soliti personaggi di qualunque slasher: giovani antipatici e incredibilmente tutti bellissimi. Caratterizzazione minimale se non del tutto assente, ad eccezione della protagonista, interpretata da una bella e realmente brava Alexandra Daddario, che dà vita a Heather, un personaggio che se da una parte deve replicare la tenacia della Jessica Biel del remake di Nispel, dall’altra costruisce un personaggio inedito per la saga di Non aprite quella porta, una protagonista con un diretto legame di sangue con Leatherface, essendo anche lei una Sawyer.

Questo diventa il punto focale di Non aprite quella porta 3D, i legami familiari che guidano verso un destino ben preciso, che regolano morale e azioni, la riprova che il destino di un individuo è scritto nel suo codice genetico.

C’è un punto di vista inedito sull’intera vicenda e malgrado compaiano subito alcuni elementi topici della saga come il viaggio, i teenegers, il pulmino e l’autostoppista, nella seconda metà il film prende una strada nuova e originale che fa di questo Non aprite quella porta uno dei capitoli più “strani” della saga.

Apprezzabile questa scelta degli sceneggiatori Adam Marcus, Debra Sullivan e Kirsten Elms che denota la volontà di rinnovare davvero il franchise e portare avanti la vicenda senza andarsi ad ancorare essenzialmente al successo dei film prodotti dalla Platinum Dunes. Poi compare qualche leggerezza di troppo a livello di scrittura che fa storcere sicuramente il naso, come la ridicola scelta da parte dei personaggi di lasciare da solo l’autostoppista nella casa ricevuta in eredità, con tutte le conseguenze che questo comporta, oppure l’infausta scelta di alcuni di loro di cacciarsi nei guai come solo in un film dell’orrore può accadere. Anche la sotto-trama che vede il rapporto amoroso tra Ryan (Trey Songz) e la bollente Nikki (una Tania Raymonde notevole) è particolarmente inutile e mal gestito perché non porta assolutamente a nulla.

Ma diciamo che questi sono dettagli su cui si può soprassedere, visto che poi l’importanza e l’attenzione ricade sul riuscito nuovo Leatherface (interpretato da Dan Yeager), un mostro invecchiato che torna a collezionare oggetti femminili e si cuce le maschere direttamente sul suo volto. L’errore che alla fin fine rimane come unico e imperdonabile è il goffo e inspiegabile tentativo di portare ai giorni nostri la vicenda. In tutto il film si evita sempre di dire in che anno si ambienta la storia ma tutti gli spettatori attenti sanno che il capostipite è ambientato nel 1974, dunque questo sequel dovrebbe essere a metà anni ’90 o poco più e nulla lo nega fino a un inutile particolare che avrebbero dovuto evitare, ovvero quando un personaggio rende protagonista di una scena in maniera del tutto gratuita uno smartphone. Tutta la verosimiglianza cronologica cade inesorabilmente, portando a uno sfasamento temporale la timeline del film e della saga. Un problema che si poteva facilmente evitare non facendo comparire quell’oggetto e ripensando quella scena incriminata.

Nel cast, oltre ai già citati, compaiono anche Scott Eastwood, figlio del grande Clint, e Marilyn Burns, Sally nel film originale che qui veste i panni della defunta Verna Sawyer, nonna di Heather. La regia è di John Lussenhop, già regista dell’action Takers, che se la cava discretamente a mescolare una messa in scena moderna con alcuni elementi tipici del cinema horror anni ’80. Discretamente spinto il versante gore con un paio di morti davvero di grande effetto. Delude invece in 3D, che emerge realmente solo in tre momenti in cui la motosega di Leatherface viene contro lo spettatore, abbandonandosi poi a un effetto profondità che non è mai tale vista la quasi totale prevalenza di scene buie.

Per i più curiosi segnalo anche un’auto citazione da parte della Twisted Pictures, visto che in una scena – quella del luna park – compare un individuo con la maschera da maiale di Saw.

In conclusione, Non aprite quella porta 3D è un buon film che riesce ad aggiunge carne al fuoco, mostrando qualche cosa di nuovo nella saga di Leatherface. C’è qualche errore di sceneggiatura qua e la e il 3D risulta inutile, ma per i fan di Faccia di cuoio questo è un gradito ritorno alle origini.

Non andate via dalla sala prima che tutti i titoli di coda siano finiti, c’è una sorpresa in coda al film.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • Deviando da remake e roboot di sorta, ci si riaggancia al primo leggendario film per raccontare una storia diversa dal solito.
  • Alexandra Daddario è un’ottima protagonista e il suo personaggio aggiunge un tocco di bizzarria alla saga.
  • Un imperdonabile errore di continuity temporale.
  • Alcune scelte di sceneggiatura sono sciocche.
  • Il 3D, per chi lo vide all’epoca al cinema, era davvero poca cosa.
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Non aprite quella porta 3D, la recensione, 6.0 out of 10 based on 1 rating

One Response to Non aprite quella porta 3D, la recensione

  1. Fabio ha detto:

    Direi che concordo su tutto il film è bello ma poteva essere meglio, purtroppo la colpa non è degli sceneggiatori ma di quei somari di produttori che hanno stravolto il tutto:-(

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