Venezia 76. Mes jours de gloire (My Days of Glory)
“Perché minimizzi sempre tutto?” questo chiede ad Adrien sua madre sul finire del film. E questo è il cuore di Mes jours de gloire (My Days of Glory), lungometraggio diretto da Antoine De Bary presentato nella sezione Orizzonti della 76esima Mostra del Cinema di Venezia.
Adrien, 27enne tenero e perennemente fra le nuvole, non ne vuole sapere di crescere. La sua vita è in una spirale discendente: da piccolo ha girato qualche film di blando successo, ma da sei anni non ottiene più una parte; nutre un rapporto di dipendenza con la madre, che lo ricopre di affetto e nomignoli; non ha una vita sentimentale, e, probabilmente, non l’ha mai avuta.
Pare che le cose comincino ad andargli meglio: infatti passa il provino per interpretare il generale Charles De-Gaulle, e incontra un’incantevole ragazza che inizia a frequentare goffamente.
Ma la leggerezza che gli è propria lo porterà ad assistere all’ineluttabile crollo di ogni aspetto della sua vita. E se fin’ora il film appariva ironico, nel finale muta, operando una dolorosa introspezione.
Al suo primo lungometraggio, il regista De Bary è stato in grado di mettere in scena una storia efficace e profondamente reale.
L’aver affidato l’intera pellicola al talento di Vincent Lacoste, attore amatissimo in Francia e ben avvezzo a ruoli simili, si è rivelata la mossa vincente.
Il personaggio di Adrian è amato da subito per la sua dolce umanità: insicuro, ancora privo di un’identità solida, pare fuori luogo ovunque si trovi e qualunque cosa faccia. Ancorato al presente non è in grado di affrontare le conseguenze delle sue azioni. Questo anche a causa di una famiglia disfunzionale interpretata da Emmanuelle Devos e Christopher Lambert.
Gli evidenti problemi di comunicazione non si fermano alla sfera verbale, ma intaccano soprattutto quella emotiva, rendendo di fatto il protagonista un bambinone imbarazzato e bugiardo patologico.
Sul finale, il regista vuole accontentare lo spettatore risolvendo con delicatezza problemi familiari e relazionali, e infine quelli lavorativi, ma facendolo così sui titoli di coda, appare forzato e sbrigativo.
Storia di crescita, dunque, di un eterno Peter Pan ancorato ai suoi passati giorni di gloria, che solo perdendo tutto trova la forza per ricostruire sé stesso.
Michele Cappetta
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