A mano disarmata, la recensione
A mano disarmata, diretto da Claudio Bonivento e tratto dall’omonimo libro, racconta la storia vera di Federica Angeli, la cronista di Repubblica che dal 2013 vive sotto scorta a causa delle minacce da parte del clan ostiense degli Spada. Eccoci nuovamente, a pochissima distanza dal clamore suscitato da Il Traditore di Marco Bellocchio, alle prese con un cinema mirato a denunciare la realtà socio-politica del Bel Paese. Tuttavia, diversamente dal già citato lungometraggio con protagonista Pierfrancesco Favino, stavolta ci muoviamo sul terreno del flop annunciato.
Il film di Bonivento, prodotto da Laser Digital Film in collaborazione con Rai Cinema, nonostante una brava protagonista come Claudia Gerini, suggerisce costantemente l’impressione di trovarsi di fronte alla TV a sbadigliare di fronte all’ennesima, mediocre fiction.
Partiamo dal limite più evidente: la rappresentazione del contesto. Il territorio degli Spada – vale a dire le strade e le spiagge di Ostia – avrebbe plausibilmente dovuto ricoprire un ruolo rilevante nella narrazione. Al contrario, si eclissa fino a svanire, facendo dell’appartamento e del luogo di lavoro della protagonista gli unici campi d’azione. Questa scelta, probabilmente, vorrebbe configurarsi come claustrofobica metafora della progressiva perdita di libertà della Angeli. Di fatto, la prevalente assenza dalla scena del litorale romano pesa notevolmente sull’efficacia del film. E non solo: anche sull’immagine della cittadina in questione, immeritatamente denigrata anche attraverso alcune battute.
A mano disarmata, dunque, pecca nel voler incensare la figura della Angeli anche a costo di inciampare nella forzatura. E’ certamente ammirevole che il grande schermo abbia deciso di diffondere la drammatica storia della Angeli. Il suo coraggio nel dar vita a un’inchiesta tanto pericolosa quanto urgente va giustamente riconosciuto. Claudia Gerini, dal canto suo, si cimenta più che dignitosamente in un ruolo delicato e molto lontano dal suo personaggio in Suburra (che col film in questione, non a caso, condivide l’argomento). Per quanto sia piacevole apprezzarne l’abilità professionale, però, il ritratto integerrimo che si vuole rifilare allo spettatore appare inevitabilmente artificioso e privo di sufficiente spessore.
Neanche la presenza del caratterista Mirko Frezza o del brillante Francesco Pannofino riesce a risollevare le sorti di un prodotto che si annuncia coraggioso e audace ma, di fatto, non mette mai lo zampino fuori dalla sua pigra comfort zone. Ancor meno funzionano le figure secondarie, evidentemente a disagio se non addirittura spaesate. Al contrario, la loro funzione avrebbe dovuto essere quella di sottolineare e accrescere la portata emotiva della storia, arricchendo quest’ultima di veridicità e prospettive individuali.
In conclusione, A mano disarmata è una produzione cinematografica non riuscita. Malgrado il valido intento di far luce sul ruolo della stampa e dei giornalisti (punto di vista assente in tanti prodotti analoghi), il film non lascerà certamente il segno nel dibattito attuale sulla criminalità organizzata. La colpa è di un mancato scambio dialettico tra, da una parte, la testimonianza delle ragioni di Federica Angeli e dei suoi sentimenti e, dall’altra, uno sguardo lucido e critico sui fatti di cronaca. Inconfutabilmente, come già accennato, l’ago della bilancia pende in favore della cronista. Tale squilibrio, unito alla già citata messa in scena didascalica e stantia, finisce col far perdere autenticità al racconto.
In parole povere, Bonivento ha perso un’occasione per contribuire significativamente a denunciare e indagare una problematica più che mai contingente.
Chiara Carnà
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