No Time to Die, la recensione
Siamo giunti al 25°, distributivamente sospiratissimo, capitolo della saga più longeva della storia del cinema, quella dell’agente dell’MI6 007. Un traguardo importante e delicato che oltre a segnare l’addio al personaggio del Bond corrente, Daniel Craig, No Time to Die ha anche l’oneroso compito di chiudere narrativamente una saga, cosa mai accaduta prima d’ora nella storia cinematografica dell’agente nato dalla penna di Ian Fleming. Perché quello iniziato nel 2006 con Casinò Royale è il primo arco narrativo bondiano ad avere un legame seriale tra film e film, ovviando alla struttura autonoma quasi antologica dei precedenti film e creando un unicum narrativo lungo cinque pellicole.
Alla fine è successo e nonostante i ripetuti rinvii distributivi causati dall’emergenza sanitaria e la costanza con cui la MGM ha insistito a voler far uscire fortunatamente il film solo al cinema, No Time to Die ha messo veramente la parola fine a un arco narrativo rivoluzionando la storia di James Bond.
Ad avere la responsabilità di questa mossa epocale è stato Cary Fukunaga, apprezzatissimo regista e sceneggiatore che ha in curriculum un pezzo da 90 come la prima stagione di True Detective, anche alle prese con lo script affiancato dai veterani Neal Purvis e Robert Wade ma anche dalla Phoebe Waller-Bridge di Fleabag. Il risultato è davvero borderline, anche se nel complesso pienamente riuscito, perché No Time to Die è il film più tradizionale dell’era Craig e allo stesso tempo il più anticonformista, un compromesso ben bilanciato che sicuramente lascerà scontento qualcuno ma farà anche la felicità di altri.
James Bond si è ritirato dai servizi segreti, che hanno anche riassegnato la carica di 007 a un nuovo agente, e si gode la pensione in una splendida casa in Giamaica. Sono passati cinque anni dalla cattura di Franz Oberhauser, alias Ernst Stavro Blofeld, e da allora Bond ha deciso anche di dire addio all’amata Madeleine Swann perchè ha capito che i guai lo seguiranno sempre e chiunque ami può essere in pericolo o una facile pedina per arrivare a lui. E infatti i guai non tardano a raggiungerlo! Il suo amico Felix Leiter, agente della CIA, si reca in Giamaica per chiedergli aiuto: dei terroristi non identificati hanno attaccato dei laboratori londinesi da cui è stato rapito lo scienziato Waldo Obruchev e sottratto il progetto Heracles, un potentissimo virus commissionato proprio dall’MI6 per scopi benefici, ma anche potenziale arma batteriologica. Solo l’esperienza di Bond e il suo collegamento con l’intelligence britannica possono risolvere la situazione.
Basta la trama a capire che siamo nei territori più classici possibile, con arma governativa sottratta dai terroristi e un villain sopra le righe con smanie di potere che deve essere fermato prima che ne vada di mezzo l’incolumità di milioni di persone. È 007, puro e basico, come da tradizione letteraria. Allo stesso tempo, però, il lavoro di character building intrapreso dagli sceneggiatori nei precedenti film non può essere tralasciato e nonostante sia palese il tentativo di Fukunaga di prendere le distanze e in parte correggere il poco apprezzato legame personale che in Spectre legava Bond a Blofeld, No Time to Die collega e dà una chiusura a tutte le linee narrative aperte nei precedenti film.
James Bond ne esce come un personaggio molto più stratificato e complesso di come siamo stati abituati a conoscerlo in oltre 60 anni di vita cinematografica, il che non è necessariamente un aspetto positivo per i puristi ma è sicuramente importante per vendere anche alle nuove generazioni un chiaro retaggio del vecchio secolo. Qui Bond continua a essere un arcigno misantropo che non le manda a dire, come tratteggiato in tutta l’era Craig, un action-man che si allontana dall’ideale di nobile gentleman e possiede meno ironia di quanto abbiamo scorto nei precedenti 007.
Però è anche giunto a quella maturità interiore in cui ha realizzato che il suo status da sciupafemmine non potrà mai essere davvero rimpiazzato da una relazione seria e non perché lui non voglia mettere la testa a posto, piuttosto perché sarà sempre un bersaglio da eliminare e l’amore nella sua vita è destinato a non trovare compimento. Vesper Lynd, alla cui memoria è dedicata l’introduzione a Matera, ne è il più fulgido esempio, e la più recente relazione con Madeleine Swann, figlia di Mr. White della Spectre, ha preso una direzione anche più critica. È quindi all’impossibilità di trovare l’amore che è legato a doppio nodo il Bond di No Time to Die, una tematica che accomuna questo personaggio a molti noti supereroi che non possono costruirsi una vita personale per non soffrire e non far soffrire i propri cari.
Ma No Time to Die è molto attento a tratteggiare un altro personaggio, la Madeleine Swann di Léa Seydoux, le cui potenzialità erano già chiare in Spectre. Il film si apre proprio con una scena a lei dedicata che introduce anche il villain, Lyutsifer Safin, che ha il volto spiritato (e sfigurato dal make-up) di Rami Malek. I due personaggi sono legati da un rapporto molto ambiguo e lei ha un’importanza fondamentale tanto nella storia del film che in quella che muove il personaggio di Bond, diventando di fatto il vero motore di No Time to Die. Madeleine Swann è caratterizzata perfettamente con una serie di sfaccettature che la discostano ampiamente dalla classica Bond-girl e la rendono a tutti gli effetti co-protagonista della vicenda, dando modo allo stesso James Bond di costruire un importante contesto attorno al quale agire. Safin, invece, con parlata flebile, inquietante maschera che sembra sottratta direttamente dal teatro giapponese e passione per i veleni di qualsiasi natura, è un villain molto sopra le righe, quasi da film horror, che riporta alla mente i più iconici freak della mitologia bondiana. Malek è perfetto nel far suo questo omino rancoroso e paziente aggiungendo al ciclo-Craig uno dei cattivi più pittoreschi ma anche più riusciti.
Se la partita di No Time to Die si gioca tutta nel triangolo Bond-Safin-Swann, ponendo ancora una volta il vero fulcro narrativo su questioni personali e non solo necessariamente spionistiche, c’è un parterre di personaggi di contorno che va dai noti M (Joseph Fiennes), Q (Ben Whishaw), Moneypenny (Naomie Harris), Felix (Jeffrey Wright) e Blofeld (Christoph Waltz) in un piccolo ruolo in stile Hannibal Lecter, ma anche dei personaggi inediti che vale la pena di menzionare. Parliamo soprattutto delle due new entries femminili, l’agente speciale Paloma e l’agente doppio zero Nomi. La prima è interpretata da una frizzante Ana de Armas nel ruolo più ironico di tutto il film, una matricola dei servizi segreti (ha solo tre settimane di addestramento, dice) che unisce una bellezza mozzafiato a una capacità da action-woman sorprendente. Peccato che l’Agente Paloma sia in scena davvero poco tempo, avrebbe meritato più spazio. La nuova 007 dell’MI6 all’indomani del pensionamento di James Bond è invece Nomi, interpretata da Lashana Lynch, un personaggio su cui si è ricamato molto per questioni sbagliate nei mesi scorsi e che, di fatto, è un grande fuoco di paglia: caratterizzata poco e male, oltre a mettere in mostra una competizione con il “vero” 007, questo personaggio non ha molto da offrire e si limita a fare da spalla a James Bond nella missione finale.
Caratterizzato da una minor spettacolarità e varietà di location (Cuba, ad esempio, è ricostruita in studio) in confronto agli altri film, No Time to Die non si risparmia comunque in quanto ad azione fragorosa che dà il meglio in un complesso piano sequenza durante l’ultimo atto che coinvolge Bond contro un intero esercito su più piani di un edificio. Ottima coreografia, grande tecnica e spettacolo assicurato.
Con No Time to Die finisce davvero un’epoca e se non mancheranno occasioni per ritrovare l’agente con licenza di uccidere sul grande schermo (con un nuovo volto), la saga che va da Bond 20 a Bond 25 è già entrata nella Storia del cinema perché ha cambiato drasticamente l’approccio narrativo a questo franchise con la più audace riscrittura fino ad ora attuata sul personaggio. Questa è senza ombra di dubbio una grande vittoria.
Roberto Giacomelli
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