Omaggio a Wes Craven: Le colline hanno gli occhi II
Negli anni Ottanta, Wes Craven (e il cinema horror in generale) stava attraversando una nuova fase: esaurito il decennio più “selvaggio” dei seventies, stavano nascendo nuovi filoni e si stava codificando una nuova estetica, altrettanto sanguinaria ma più raffinata.
Gli eighties sono gli anni per eccellenza del genere slasher: Halloween di Carpenter (in anticipo sui tempi, è del 1978) e Venerdì 13 di Cunningham (1981) sono le due opere seminali insieme a Nightmare di Craven (1984), che introduce il soprannaturale. La grandezza di Craven, come di tutti i maestri del cinema, consiste anche nel saper leggere i cambiamenti socio-culturali e tradurli in immagini nuove, riprendendo elementi della tradizione horror precedente e creando qualcosa di nuovo.
Già nel 1981 Craven aveva gettato le basi dello slasher con Benedizione mortale, che poi svilupperà appieno con il leggendario Freddy Krueger; sempre negli anni Ottanta, il regista ha creato horror di vario tipo, quasi sempre diversi l’uno dall’altro – Il mostro della palude, Dovevi essere morta, Il serpente e l’arcobaleno, Sotto shock – accomunati però dalla presenza dell’elemento soprannaturale che invece mancava nei due grandi film degli anni Settanta, L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi. Ma è proprio in questo periodo che Craven, a sorpresa, sembra tornare per un attimo indietro nel tempo, quando nel 1985 dirige Le colline hanno gli occhi II (The Hills Have Eyes: Part II, USA), un vero e proprio sequel del cult del 1977.
IL FILM
L’idea sarebbe interessante, ma arriva fuori tempo massimo, in un periodo dove il survival-movie e il rape & revenge non vanno più molto di moda, o almeno non funzionano più con le codifiche precedenti: nel cinema horror sfavillano assassini mascherati, ragazzi in balia dei killer, trame con elementi fantascientifici, un uso più marcato del sangue e degli effetti speciali ma – paradossalmente – una brutalità più fumettistica e meno realistica. Anche Tobe Hooper realizza il sequel Non aprite quella porta – Parte 2 (The Texas Chainsaw Massacre 2, 1986), ma in modo volutamente grottesco e auto-ironico, tanto da ottenere un horror che funziona. Wes Craven invece a sorpresa stecca un po’, perché vuole riproporre una storia molto simile al suo film originale ma in un contesto che non funziona più: stando alle dichiarazioni del regista, questo film fu girato per motivi alimentari – sostanzialmente perché aveva bisogno di soldi – ma lo ha sempre rinnegato.
Craven scrive soggetto e sceneggiatura, la cui vicenda inizia sette anni dopo i fatti accaduti nel film originale, quindi indicativamente la distanza produttiva e quella narrativa vengono fatte coincidere. Bobby (Robert Houston), uno dei pochi superstiti della famiglia Carter, non riesce a superare il trauma di quanto accaduto ed è in cura da uno psicologo. Ruby (Janus Blythe), fuggita dalla sua famiglia di assassini, si è ora stabilita nella società con un nuovo nome, Rachel, nascondendo a tutti il suo passato – solo Bobby, divenuto nel frattempo suo amico, conosce la verità. Il ragazzo, insieme ad altri sette amici, dovrebbe partecipare a una gara di motocross nel deserto, proprio vicino a dove la sua famiglia è stata massacrata, ma al momento della partenza una crisi di nervi lo costringe a rimanere a casa. Al suo posto va Ruby, mentre gli amici non prestano attenzione alle leggende inquietanti che corrono riguardo quella località, senza sapere che proprio Bobby ha vissuto l’orrore in prima persona. Dopo aver preso una scorciatoia per arrivare prima sul luogo della gara, rimangono senza benzina e sono costretti a fermarsi in un macabro luogo fatto di baracche abbandonate: Cass, una ragazza cieca del gruppo, percepisce una sensazione di pericolo ma nessuno lo ascolta e presto tutti ne pagano le conseguenze. Plutone (Michael Berryman), incredibilmente sopravvissuto sette anni prima all’aggressione del cane, continua a vivere nei paraggi insieme al crudele Mietitore, fratello di papà Giove, e insieme a lui prosegue l’attività predatoria sulle colline. Mentre la loro furia omicida si scatena sui ragazzi, Ruby – che nel frattempo ha rivelato la sua vera identità – li aiuta a difendersi dai due assassini.
QUESTIONE DI SEQUEL
Innanzitutto è necessario un chiarimento filologico: se Le colline hanno gli occhi (2006) di Alexandre Aja è un remake abbastanza fedele dell’omonimo di Craven (pur se con qualche modifica, in particolare la presenza delle mutazioni radioattive), Le colline hanno gli occhi 2 (2007) di Martin Weisz non è un remake de Le colline hanno gli occhi II di Wes (da notare anche la differenza con cui è scritto il numero), ma un sequel del film di Aja che introduce anche la presenza dell’esercito (ricordiamo che entrambi i film 2.0 sono stati co-prodotti dallo stesso Craven).
Le colline hanno gli occhi II è uno dei rari esempi di sequel diretti dallo stesso regista dell’originale, almeno nel cinema horror: per capirci, nessuno degli innumerevoli sequel di Halloween o Venerdì 13 è stato diretto da Carpenter o Cunningham, e della saga Nightmare Craven dirigerà solo un tardo epigono meta-cinematografico, Nightmare – Nuovo incubo (1994). L’esempio più immediato di sequel diretto dal medesimo regista è Non aprite quella porta – Parte 2 di Tobe Hooper: come si accennava, il regista capisce però che l’originale è irripetibile, e che l’unico modo per dirigere un buon sequel è di girare qualcosa di diverso, riproponendo sì i personaggi e le situazioni, ma esasperando il tutto in modo grottesco, fumettistico e auto-ironico. Per cui sangue e violenza sono presenti in abbondanza, ma non risultano disturbanti come nel primo, ma proprio perché non lo vogliono essere: ecco la ricetta giusta per creare un sequel interessante, tanto è vero che i capitoli 3 e 4 (prima dei vari remake, prequel, sequel e reboot 2.0) non saranno così degni di nota (anche perché non diretti da Hooper).
Craven non effettua invece un’operazione di questo tipo: il suo scopo, a quanto si sa, era puramente commerciale, per cui non era interessato a imprimere la vena autoriale che caratterizza la maggior parte dei suoi film, ma soltanto sfruttare il successo de Le colline hanno gli occhi per creare una nuova pellicola “di cassetta”. Il problema fondamentale è che Craven ripropone una trama sostanzialmente identica (per cui già di per sé poco interessante) adattando i protagonisti al nuovo decennio, ma non funziona: al posto della famiglia Carter, rappresentazione della classe media americana, troviamo una serie di ragazzi e ragazze sghignazzanti e dagli ormoni in fermento, sempre in vena di fare scherzi e dal look squisitamente anni Ottanta (capelli cotonati, giubbini di pelle). Il che non è necessariamente un difetto, anzi è giusto cogliere il cambiamento delle mode, ma per rendere efficace un film bisogna adeguarvi anche la storia – per esempio, in Venerdì 13 e Nightmare i ragazzi anni Ottanta sono perfetti, perché adeguati al tipo di vicende narrate. Se invece prendiamo i cannibali del deserto, ancora fermi agli anni Settanta, e li mettiamo accanto a questi teenager sgargianti, l’effetto è troppo stridente – e lo stesso problema, amplificato, lo troveremo in Non aprite quella porta 4 (1994), ancora più fuori tempo massimo e non a caso uno dei più brutti dell’intera saga: ormai vanno di moda i serial killer mascherati come Michael Myers o Jason Voorhes o figure come Freddy Krueger, che trovano in città o in campeggio le loro vittime, e non c’è più posto per le famiglie di cannibali che vivono isolate dal mondo. Anche dal punto di vista estetico c’è un contrasto abbastanza evidente, che si nota soprattutto durante i flashback dal film originale: non ci sono più i colori forti, abbaglianti e quasi “in acido” tipici dei seventies, sostituiti da una fotografia più elegante ma anche più patinata e inconfondibilmente anni Ottanta.
BUONI E CATTIVI
Più che la compagnia schiamazzante di ragazzi e ragazze, quasi tutti abbastanza stereotipati, nel nostro film i personaggi più interessanti sono ancora i cannibali, ridotti però a due: il sempre ottimo Michael Berryman – caratterista di prim’ordine – e John Bloom nell’orribile figura del Mietitore, un uomo enorme e dal volto semi-deforme che vive con Plutone in una miniera. Tra i “buoni” i caratteri più interessanti sono invece Ruby e Cass, la ragazza cieca che avverte continuamente una sensazione di pericolo e che sarà protagonista di alcune sequenze ricche di suspense, anche per il ricordo di pellicole come Terrore cieco; ci sarebbe pure Bobby tra le figure di spicco, e nei primi minuti lo è, peccato però che la regia decida di farlo scomparire prima che il film entri nel vivo – semplicemente, le sue ossessioni gli impediscono di partecipare alla gara e al posto suo va Ruby, sua amica o fidanzata (non viene detto chiaramente).
Robert Houston, che torna dal primo film, è protagonista di alcune scene dove lo vediamo in preda a incubi e ossessioni che si manifestano soprattutto attraverso flashback. E qui veniamo a un altro punto debole del film, cioè l’utilizzo ossessivo ed eccessivo – almeno nella prima parte – di questo meccanismo: tramite un’operazione di “copia e incolla” in fase di montaggio, con differenze minime quali alcune inquadrature eliminate, vengono riproposte sequenze sostanziose da Le colline hanno gli occhi riguardanti i momenti più feroci degli omicidi e della vendetta. Bobby non è l’unico ad avere questi flashback, li ha anche Ruby e persino il cane, che ricorda la precedente lotta con Berryman, e a lungo andare diventano fastidiosi – non si capisce bene se siano un “bigino” per chi non ha visto l’opera del ’77 oppure un modo per aumentare la durata e inserire scene più riuscite rispetto a quelle girate finora.
UN FILM POCO ISPIRATO…
La storia in effetti non è molto solida, anche se agli amanti del genere può piacere, e soffre di una cerca ripetitività: Craven dirige in modo abbastanza impersonale un film che ripropone sostanzialmente la stessa vicenda – un gruppo di persone in balia dei cannibali nel deserto – configurandosi più quasi come un remake in salsa anni Ottanta che un sequel. Il regista, sulla falsariga di Non aprite quella porta, colloca all’inizio del film una didascalia che spiega essere ispirato a una storia reale e racconta in sintesi quanto accaduto sette anni prima, affermando che “le colline hanno occhi”: avrebbe funzionato alla perfezione nel film originale, ma qui si avverte troppo il senso di finzione.
Come da prassi in molti horror anni Ottanta, Craven introduce anche momenti di “falso allarme” costruiti sugli scherzi dei protagonisti, cioè scene in cui sembra che si stia manifestando il pericolo ma in realtà è tutto un gioco: e questo accade fin dall’inizio, quando il fidanzato di Cass entra in casa dalla finestra indossando con una maschera deforme per spaventarla quando gli tocca il viso (peccato che sia lei a sentirlo e a farlo spaventare), per poi reiterarsi due volte di seguito nella baraccopoli con due finte aggressioni.
Va detto però che Craven è sempre Craven, anche quando è ai minimi termini come in questo caso, e dunque non tutto è da buttare. Dopo la presentazione sommaria del gruppo, finalmente dopo circa 20 minuti si inizia a entrare nel vivo della storia, con il pullmino che si guasta nel mezzo del deserto: il pericolo è annunciato da vari segnali fatti di legno e ossa, ma naturalmente (nonostante gli avvertimenti di Cass) nessuno bada al macabro luogo dove si trovano, e dimenticandosi della gara si danno al divertimento come se fossero in un campeggio.
Dunque, una serie di situazioni abbastanza inverosimili, nelle quali però si fa strada man mano la suspense a cui contribuisce il bel personaggio di Ruby, ormai diventata irriconoscibile rispetto a quando era una ragazza selvaggia (capiamo che è sempre lei soprattutto per il flashback che si sovrappone al suo primo piano). È lei la prima ad essere aggredita dal fratello Plutone, il che la costringe a rivelare al gruppo la sua identità e quanto accaduto a Bobby. Anche Berryman si è adeguato alla nuova estetica, e il look da cavernicolo si unisce a un vestiario un po’ da film post-atomico – il suo personaggio è di sicuro il più gustoso insieme al Mietitore.
LE COLLINE IN SALSA SLASHER
Il meccanismo narrativo si evolve dal survival-movie assumendo connotazioni tipiche dello slasher (d’altronde, siamo nel periodo d’oro di questo filone, e Craven lo mette in mostra): non solo per la tipologia delle vittime (ragazzi e ragazze allo sbaraglio), ma anche per la sequenzialità degli omicidi, in cui i protagonisti vengono uccisi uno per uno nei modi più disparati. Un motociclista viene stritolato da un masso fatto cadere (ne vedremo un braccio staccato e appeso), il ragazzo e la ragazza di colore si trovano rispettivamente con la testa spaccata da un’ascia e con la gola tagliata (buono l’effetto splatter di quest’ultima), il bullo del gruppo viene infilzato da una lancia, una ragazza schiacciata a mani nude dal mietitore, il tutto dunque un po’ in stile Venerdì 13.
Gli omicidi sono costruiti in modo efficace, quasi tutti in notturna, con poco sangue ma una buona dose di suspense dove si vede la mano esperta di Craven, nonostante alcuni delitti siano lasciati fuori campo. Altrettanto suggestive sono le location: una serie di baracche disperse nel deserto e ornate con macabre pelli animali, il tutto collegato attraverso una galleria sotterranea dove vivono Plutone e il Mietitore. Qui, tra una luce rossa che contrasta con l’oscurità, vediamo corpi appesi, una mano mozzata e indefiniti oggetti orrorifici – un’ambientazione che in un certo senso anticipa Non aprite quella porta 2 e l’iconografia di Rob Zombie, ma che poteva essere sfruttata meglio ambientandovi più sequenze invece che pochi minuti.
L’attesa dell’ignoto e l’esplorazione dei luoghi da parte di Cass risulta abbastanza ansiogena per via della sua cecità, un meccanismo più volte utilizzato nel cinema horror e thriller (Terrore cieco, Gli occhi della notte) e che Craven riadatta in questo slasher.
Poco spazio è concesso invece alla vendetta: Berryman viene ucciso, questa volta per davvero, dal cane superstite che lo spinge giù dalla collina facendolo sfracellare tra le rocce, mentre il Mietitore viene intrappolato col fuoco da Cass e il fidanzato attraverso una serie di ingegnosi stratagemmi. Da notare che non viene chiarita bene la sorta di Ruby: la troviamo priva di sensi dopo che è caduta sbattendo la testa contro un sasso, forse è morta o forse solo svenuta; magari è stato fatto apposta per un eventuale terzo sequel, che però non è mai arrivato.
Davide Comotti
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