Omaggio a Wes Craven: Le colline hanno gli occhi
Le colline hanno gli occhi (USA, 1977) è tra i film più distintivi di Wes Craven: uno dei più celebri, riusciti, crudeli e seminali, un’opera girata durante il periodo cinematografico più “feroce” del regista.
LE INFLUENZE
Le colline hanno gli occhi, scritto dallo stesso Craven, è il suo secondo lungometraggio dopo l’altrettanto feroce e significativo L’ultima casa a sinistra (1972), del quale ripropone alcune situazioni e atmosfere. Trattasi di film non solo eccellenti in quanto a realizzazione, ma anche fondamentali per la codifica di vari filoni che si svilupperanno in seguito: se l’esordio alla regia di Craven è stato il primo autentico rape & revenge della storia del cinema (escludendo il più autoriale La fontana della vergine di Ingmar Bergman, di cui Craven fa una sorta di rifacimento), così realistico, sanguinario e impressionante, Le colline hanno gli occhi riprende in parte il discorso della “violenza/stupro e vendetta” introducendo però qualcosa di nuovo come elemento primario. L’ambientazione è ancora la provincia americana ripresa nei suoi lati più selvaggi, ma ci spostiamo dalle case in campagna a un deserto ostile e (in apparenza) disabitato; le vittime, che in seguito per sopravvivere si trasformeranno loro stessi in carnefici, rappresentano sempre la tipica famiglia media americana; decisamente più pittoreschi sono gli assassini, una famiglia di cannibali che vive fra le grotte in uno stato semi-primitivo, nutrendosi degli animali e degli uomini che hanno la sventura di passare in quel territorio.
Oltre a L’ultima casa a sinistra, Craven pare strizzare l’occhio a un altro monumento del cinema horror, Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper: Le colline hanno gli occhi non raggiunge forse quell’atmosfera così terrificante, malata e marcia di Non aprite quella porta, ma siamo decisamente da quelle parti. Non sappiamo con precisione se ci sia stata un’influenza diretta, ma con ogni probabilità Craven ha visto il film di Hooper, e il suo universo orrorifico ne è rimasto impregnato: la famiglia deviata (topos del cinema horror già da prima, pensiamo a Spider Baby) del nostro film è un po’ l’erede di Leatherface e della sua congrega, pure loro abitanti del deserto, così come i Carter riprendono i fratelli Hardesty e i loro amici (l’opposizione tra famiglia normale e famiglia disfunzionale è il nucleo di entrambi i film). Le colline hanno gli occhi non si limita però a riproporre questi caratteri, ma li unisce in una storia robusta e mozzafiato a cui si aggiunge un ampio spazio dedicato alla lotta per la sopravvivenza e alla vendetta, codificando anche un altro futuro genere horror, il survival-movie.
Per festeggiare l’anniversario di matrimonio dei genitori, tutta la famiglia Carter intraprende un viaggio in auto e roulotte verso la California: sono gli anziani Bob ed Ethel, i figli Brenda, Bobby e Lynn (Dee Wallace) col marito Doug e la figlioletta Katy. Durante la sosta in una stazione di servizio, un vecchio li informa che tutta l’area desertica circostante è disabitata a causa di alcuni esperimenti nucleari effettuati dall’esercito, e li avvisa di non uscire dalla strada principale. Incurante dell’avvertimento, il capofamiglia Bob prende invece una scorciatoia, e un incidente obbliga i Carter a fermarsi nel mezzo del deserto, senza possibilità di chiedere aiuto. In una grotta fra le colline abita una famiglia di feroci assassini cannibali che vivono allo stato brado e predano tutto ciò che passa nel loro territorio: il padre Giove, la madre, i figli Plutone (Michael Berryman), Marte e Mercurio e la figlia ribelle Ruby, che vuole fuggire da questa spaventosa realtà. Hanno tenuto d’occhio i Carter fin dalla loro sosta forzata e, dopo aver sbranato uno dei loro cani, appena cala la notte assalgono la roulotte: i sopravvissuti alla strage dovranno lottare con tutte le loro forze per difendersi dagli assassini.
Le colline hanno gli occhi è un horror nel senso più puro del termine, pur non avendo nulla a che vedere col soprannaturale: un film in cui l’orrore nasce anzi proprio dal brutale realismo che caratterizza la storia – un realismo filtrato dalla voluta esagerazione dei “cattivi”, che li rende pittoreschi ma assolutamente verosimili – scene di cruda violenza e scontri corpo a corpo che riescono a disturbare anche senza ricorrere troppo all’effetto gore/splatter, una messa in scena degli elementi più bestiali dell’uomo, anche dei cosiddetti “buoni” che sono costretti a tirar fuori la loro parte belluina per poter sopravvivere. Vengono in mente altri classici degli anni Settanta, seppur meno macabri, quali Un tranquillo weekend di paura di John Boorman e Cane di paglia di Sam Peckinpah: il film di Boorman in particolare riprende queste atmosfere, passando dal deserto alla foresta nordamericana ma mantenendo un canovaccio simile con personaggi isolati dal mondo civile e costretti a lottare contro uomini selvaggi. Come si diceva, i riferimenti principali de Le colline hanno gli occhi sono però i precedenti L’ultima casa a sinistra e Non aprite quella porta, in cui l’orrore deriva da una ripresa quasi documentaristica della violenza, una crudeltà estrema fatta di omicidi, stupri e cannibalismo che non ha necessariamente bisogno di mostrare il sangue (pure presente) per mettere a disagio lo spettatore.
Con quello di Tobe Hooper, il nostro film ha in comune non solo l’ambientazione desertica e lo scontro tra famiglie normali e famiglie di “mostri”, ma anche un’estetica squisitamente anni Settanta: Le colline hanno gli occhi appartiene al “primo Craven”, lontano dalle successive raffinatezze di Nightmare (1984), Scream (1996) e altri ancora, girato con un’immagine “sporca” (un po’ grindhouse, la definiremmo oggi), una fotografia dai colori saturi al massimo, con una luce abbagliante di giorno e un’oscurità opprimente di notte; i colori sono marcati anche nelle scene notturne, basti pensare al piano-sequenza iniziale su cui scorrono i titoli di testa – il profilo nero delle colline che contrasta con il blu scuro della notte trasmettendo fin da subito una sensazione di disagio e pericolo.
UN FILM CHE HA FATTO SCUOLA
Per quanto detto finora, Le colline hanno gli occhi è un film decisamente figlio del suo tempo, in particolare come estetica, ma che non è assolutamente invecchiato, anzi: la costruzione della suspense, la rappresentazione della violenza e di questi cannibali hanno fatto (e continuano a fare) scuola (come il film di Hooper, del resto), a tal punto da aver creato un intero filone e due remake. Fin dal decennio successivo, ma ancora di più nel cinema horror contemporaneo, non si contano le pellicole – più o meno riuscite – incentrate su personaggi dispersi in luoghi isolati e in balia di psicopatici, mescolando talvolta survival-movie, torture-porn e rape & revenge.
Lo stesso Craven, nel 1985, gira il sequel Le colline hanno gli occhi II – decisamente meno riuscito e meno significativo del primo, un prodotto d’exploitation girato per motivi alimentari ma comunque godibile per gli amanti del genere. Nel 2006, il regista francese Alexandre Aja (fra i più celebri della nuova scuola horror d’Oltralpe) ne dirige invece un omonimo remake, co-prodotto dallo stesso Craven, che segue abbastanza fedelmente il soggetto originale ma introduce un elemento pseudo-fantascientifico (i nemici sono mostri che hanno subito mutazioni a causa degli esperimenti nucleari) e accentua la componente gore/splatter. Nel 2007, Martin Weisz realizza invece Le colline hanno gli occhi 2 (ancora co-prodotto da Craven), che non ha niente a che vedere con Le colline hanno gli occhi II (da notare anche il modo diverso con cui è scritto il numero), ma è un sequel del film di Aja che esaspera la dimensione fantascientifica introducendo anche la presenza dell’esercito.
Craven all’epoca non era ancora una celebrità, come è accaduto del resto a vari registi del new-horror e non solo: dobbiamo immaginare il contesto dell’epoca, in cui numerosi autori come il nostro si muovono controcorrente rispetto al cinema “ufficiale”, sono un po’ degli “indipendenti” che non dispongono di un ricco budget ma in compenso portano idee innovative e coraggiose. Va detto, come si accennava in precedenza, che la tematica della famiglia deviata, mostruosa e disfunzionale non nasce negli anni Settanta, ma già nel decennio precedente, per esempio con due piccoli grandi film del 1964: Spider Baby di Jack Hill, autentica culla di follie e orrori nascosti in una vecchia casa abitata da un losco gruppo familiare, e 2000 Maniacs di H.G. Lewis, in cui l’inventore del gore e dello splatter immagina un’intera comunità di assassini. Nei seventies, queste atmosfere vengono esasperate in quanto a morbosità e violenza, e possono quindi nascere Leatherface coi suoi fratelli e i cannibali del deserto; un tema che peraltro non si esaurisce nel decennio, ma prosegue in quello successivo innanzitutto con lo stesso Hooper che ha l’idea di girare il geniale sequel Non aprite quella porta – Parte 2, una sarabanda grottesca e auto-ironica di sangue, scenografie e personaggi bizzarri. Tutti film che hanno ispirato con ogni probabilità l’universo visivo del contemporaneo Rob Zombie, le cui opere sono intrise di queste atmosfere.
Ne Le colline hanno gli occhi le figure più interessanti sono i misteriosi nemici, sono loro ad attrarre maggiormente l’attenzione dello spettatore (per qualche misterioso processo psicologico, nel cinema spesso è proprio la figura del “cattivo” a esercitare un fascino maggiore). Gli sventurati protagonisti passano quasi in secondo piano, almeno fino a quando si trasformano a loro volta in assassini per sopravvivere: rappresentano la famiglia media americana, l’espressione della classe media in cui l’unione familiare è il centro di tutto. Anche per questo motivo la storia risulta perturbante, perché coinvolge persone che in un certo senso sono simili agli spettatori, i quali possono immedesimarsi nella famiglia Carter.
ATTORI
Per quanto si diceva prima a proposito del budget, Craven non può ancora concedersi il lusso di avere a disposizione un ricco cast, ma riesce a sfruttare al meglio gli attori e le attrici che ha disposizione caratterizzando i personaggi nel modo giusto; la stessa cosa era accaduta con L’ultima casa a sinistra, in cui lo psicopatico Krug Stillo era interpretato da David Hess, in seguito divenuto celebre proprio per questo ruolo e chiamato a interpretare personaggi simili in altri rape & revenge (La casa sperduta nel parco, Autostop rosso sangue), ma che all’epoca era agli esordi nel cinema. Un altro merito indiscusso di Craven è quindi di aver fatto emergere vari attori e attrici grazie ai ruoli che hanno interpretato nei suoi film. In Le colline hanno gli occhi troviamo per esempio una giovane Dee Wallace, futura interprete di pellicole famose quali L’ululato di Joe Dante o E.T. – L’extraterrestre di Steven Spielberg, ma soprattutto Michael Berryman: finora aveva interpretato ruoli minori (lo ricordiamo nel celeberrimo dramma Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman), ma è con Craven che diventa un attore caratterista di primo piano. Per il suo aspetto fisico inconfondibile, a causa di una malformazione genetica che lo rende completamente glabro e con un viso quasi deforme, è diventato suo malgrado un’icona del cinema horror: per Craven è un attore-feticcio, tanto che lo troviamo anche in Benedizione mortale, Invito all’inferno e Le colline hanno gli occhi II (in cui il regista lo fa “resuscitare” facendoci scoprire che qui in realtà non è morto), ma lo ricordiamo anche in Italia nel crudelissimo Inferno in diretta di Ruggero Deodato, e negli ultimi anni compare di frequente negli horror di Rob Zombie. Con la testa pelata e aguzza, gli occhi fuori dalle orbite e un’espressione pronunciata, chiunque lo diriga ha buon gioco nel creare un cattivo di prim’ordine, accentuandone le caratteristiche a seconda delle esigenze. Craven gli disegna un ruolo perfetto, il crudele Plutone, il cui ghigno malefico si sposa con un abbigliamento un po’ da indiano e un po’ da cavernicolo, con una giacca di pelle marrone, una collana di ossa e un coltellaccio. Che è un po’ l’aspetto di tutta questa famiglia cannibale: volti pittoreschi e costumi tribali, vestiti di pelli e contornati di ossa come la loro abitazione in una grotta fra le rocce – da notare anche i curiosi nomi degli uomini, tutti nomi di pianeti, mentre la madre rimane senza nome e la figlia si chiama più comunemente Ruby.
LE ATMOSFERE
Craven costruisce un’atmosfera inquietante, opprimente e agorafobica, basata su location desertiche e assolate che vengono valorizzate da una fotografia con toni forti e colori quasi “in acido” – almeno per le scene diurne. Paradossalmente, si crea un’atmosfera di agorafobia – i personaggi sono dispersi in uno spazio immenso, praticamente nel nulla – che a sua volta genera una pesante claustrofobia, in cui il deserto e le colline diventano una cappa minacciosa. La suspense procede per accumulazione attraverso un processo di climax ascendente: dopo l’introduzione in cui vediamo la misteriosa Ruby nella stazione di servizio, le presenze ostili si manifestano con la soggettiva di un binocolo che osserva la famiglia Carter, mentre sentiamo spaventosi rantoli e mugugni (ecco perché le colline “hanno gli occhi”, come sarà esplicitato più volte nel sequel).
Craven ha già modo di sfoggiare una sua specialità, cioè l’uso della soggettiva da parte dell’assassino: un meccanismo che tornerà anche in Benedizione mortale e, più compiutamente, in Nightmare e Scream, dove l’avanzare del serial killer riveste un ruolo primario. Dapprima i membri della famiglia Carter percepiscono solo una vaga sensazione di pericolo, che diventa man mano più esplicita fino a quando Bobby ritrova il cane sventrato fra le rocce (con un’inquadratura sulle viscere estratte) e intravede una figura spaventosa che lo induce alla fuga. Il nucleo familiare è fisicamente diviso, tra chi va e cercare aiuto e chi rimane sul posto, ma la follia omicida sta per colpire tutti in un’escalation di violenza. La regia mostra anche dettagli sanguinari, ma è soprattutto il realismo della violenza a impressionare: i primi a cadere sono il vecchio della stazione di servizio, ucciso a mazzate e poi appeso alla porta con un pugnale, e il capofamiglia John, che finisce bruciato vivo in una fra le scene più impressionanti del film. Il sadismo viene spinto al massimo quando l’inquadratura indugia sul suo primo piano morente, ripreso poi nella tana dei cannibali che banchettano del suo cadavere (non c’è un cannibalismo esplicito come nel filone italiano, ma l’insistenza sulla carne cucinata e mangiata fa comunque uno stomachevole effetto).
Il livello ansiogeno, cresciuto man mano durante la storia, esplode durante l’assalto alla roulotte: la madre e la figlia maggiore (Dee Wallace) vengono uccise a colpi di pistola, mentre assistiamo a un principio di stupro sulla giovane Brenda da parte di Berryman e Lance Gordon (Marte) – la violenza sessuale non è spinta all’estremo come in L’ultima casa a sinistra, ma le grida della poveretta fanno comunque un buon effetto. Le urla di dolore e disperazione sono infatti la principale componente sonora del film, anche più rilevanti rispetto alla colonna sonora musicale, talmente forti e reiterati da creare disagio nello spettatore.
Con il rapimento della neonata si passa alla fase della vendetta, pianificata con furia ma anche scientificamente dai superstiti: rivestono un ruolo primario l’altro cane della famiglia, che azzanna ferocemente Plutone lasciandolo per morto (ma non sarà così, vedremo nel sequel), e la figlia ribelle Ruby, che per il suo iniziale tentativo di fuga viene condannata a rimanere legata con una catena fuori dalla grotta in cui vivono. Fuoco, pistole, pugnali e cruenti scontri a mani nude sono tutte armi utilizzate per ottenere la salvezza e la vendetta, che trova il suo pieno compimento nell’inquadratura finale, con Doug che pugnala selvaggiamente Marte assumendo un’espressione belluina come il nemico; impressionante anche la scena in cui il cadavere della madre viene fatto sedere su una sedia e utilizzato come esca per Giove.
CURIOSITA’
Riguardo al film ci sono almeno due curiosità significative: esiste anche un finale alternativo, in cui Ruby viene portata via dai Carter – una conclusione che si rivelerà utile soprattutto in vista del sequel, dove troveremo la ragazza selvaggia vivere nella società civile sotto falso nome; si dice che Craven volesse girare anche una scena in cui i cannibali uccidono e mangiano la piccola Katy, ma non fu mai realizzata a causa del rifiuto degli attori, che addirittura minacciarono di lasciare il set se si fosse girata tale scena.
Davide Comotti
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