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Sorella Morte, la recensione
Se la scena horror spagnola è così tanto acclamata e riconosciuta da gran parte degli appassionati del genere come l’isola felice del vecchio continente, la maggior parte del merito di tale gradimento va ricercata nell’abilità degli autori iberici di acquisire la lezione proveniente dagli horror mainstream, allo scopo però di proporre film con una personalità propria e con un’estetica che rifugge da quella che sarebbe una semplice e sterile copia. Ne sono un esempio pellicole come la saga di Rec, Possession – L’appartamento del Diavolo, La Abuela e Veronica, titoli nei quali i filoni degli zombie, delle possessioni demoniache e delle case infestate sono rielaborati con modalità e approcci registici molto vicini al gusto e alla tradizione dell’horror europeo. Gli ultimi due film citati, inoltre, sono firmati da uno dei maestri del cinema spagnolo di genere contemporaneo: Paco Plaza.
L’autore Valenciano, infatti, insieme al suo ex socio Jaume Balaguerò, è uno dei nomi più apprezzati dai fan grazie alla sua capacità di servirsi degli stilemi del genere, senza per questo risultarne schiavo e ricavando anzi da essi immagini iconiche e atmosfere agghiaccianti, messe al servizio di storie originali e mai banali. Attitudine, questa, che gli ha consentito di creare una cifra autoriale ben riconoscibile grazie alla quale ogni suo lavoro è atteso con trepidante hype.
Fear Street Trilogy: i 3 volti della paura di Netflix
Cosa può venir fuori unendo R.L. Stine, ovvero il papà di Piccoli Brividi, con tutti i luoghi comuni del cinema horror post-moderno americano e il target base di Netflix? La risposta arriva da Fear Street, o meglio Fear Street Trilogy, tre film tratti dall’omonima serie di romanzi di R.L. Stine che raccontano un’unica grande storia d’orrore che pesca a piene mani dalle suggestioni del cinema del brivido più popolare degli ultimi 40 anni. Parliamo di Fear Street Parte 1: 1994, Fear Street Parte 2: 1978, Fear Street Parte 3: 1666 tutti e tre diretti e co-sceneggiati da Leigh Janiak, conosciuta dal pubblico horror per il bel body-horror Honeymoon (2014).
A Classic Horror Story, la recensione
Avete presente tutti quei tòpoi del genere horror che gli sceneggiatori prendevano (e molte volte ancora prendono) come punti fermi per costruire attorno le macro-sequenze dei loro film? Del tipo: una coppietta è impegnata a fare sesso e quindi sarà la vittima sacrificale del prossimo omicidio del serial killer a piede libero; un gruppo di amici è a far baldoria in casa e un rumore in cantina attira l’attenzione di uno di loro che, rigorosamente solo, andrà a vedere cosa è stato per morire malamente. Etc, etc. Insomma, tutti quegli elementi che si usano per dar vita a “una classica storia horror”.
Velvet Buzzsaw, la recensione
Per “piatto svuota-frigo” si intende una pietanza ottenuta mischiando gli avanzi commestibili presenti nel frigorifero, dopo che non si è riusciti a fare la spesa (esempi tipici sono la frittata con la lattuga cotta o la pasta sfoglia con sopra rape e formaggio spalmabile, abominio agli occhi del Signore); codeste ricette spesso vengono in seguito celebrate come frutto di geniale creatività nei migliori blog di cucina.
Il concetto alla base dei piatti svuota-frigo, quello del “disperato” lampo di creatività, è lo stesso degli “horror da magazzino”: ovvero film confezionati da una casa di produzione annoiata che shakera vecchi canovacci con un cast di tutto rispetto per produrre un’opera che, se commercializzata, finirà nelle svendite 3×2 di qualche supermercato, o, alla peggio, nei magazzini e sarà rispolverata, appunto, solo per gli appassionati ammiratori degli attori protagonisti (della serie: “Avete quel film con questo attore?”, “Sì, ne dovrei avere una copia in magazzino”.)