Under the Skin, la recensione
Impossessatasi di una pelle dalle fattezze umane, un’aliena dalle origini sconosciute comincia a scrutare le periferie scozzesi in cerca di prede maschili umane. Accompagnata da un misterioso motociclista e sempre a bordo di un grosso van, l’aliena comincia a raccogliere vittime, ma lungo la strada rimarrà sorpresa dalla natura umana che la sua pelle le sta donando.
Dopo un travagliato percorso produttivo, Under The Skin raggiunge finalmente la luce grazie alla regia di Johnathan Glazer, già eclettico regista di Sexy Beast – L’Ultimo Colpo Della Bestia e Birth – Io Sono Sean.
Usando come ispirazione il libro omonimo di Michel Faber, originariamente una satira ironica sull’umanità, Glazer trasforma i meccanismi narrativi del mondo fantascientifico in un vero e proprio tour de force.
A partire dalle prime, sconcertanti, immagini echeggianti di un Kubrick al massimo dell’ermetismo, la pellicola non accenna alla benché minima spiegazione o background di qualunque degli elementi di scena. Scarlett Johansson si presenta immediatamente sullo schermo al naturale, ma l’ambiente asettico e accecante impedisce qualsiasi vibrazione; se guarderete questo film alla ricerca di un semplice gusto per gli occhi, vi sbaglierete di grosso. Under The Skin non ha assolutamente nulla dell’atmosfera di Faber o delle precedenti incursioni cinematografiche della Johansson. Nulla.
La struttura, su cui si compongono le allucinanti visioni che compongono la pellicola, è divisa nettamente in due: una prima parte decisamente angosciante e oppressiva, e una seconda, leggera, triste ed umana.
La prima parte di Under The Skin lascia addosso un terribile senso di angoscia, grazie anche alla splendida, ma ripetitiva, colonna sonora di Mica Levi e al lento, lentissimo ritmo modulato dall’esasperato interrogatorio che la seducente aliena impone alle sue vittime.
L’Aliena si nasconde, gira per le strade, rimane sconvolta dai volti, dai costumi, da questi rossetti che dovrebbero rendere le femmine di questa specie, più belle di quel che sono. E poi, inizia la caccia.
Girando con telecamere nascoste e lasciando a Scarlett l’improvvisazione con attori ignari del proprio ruolo, l’assurda impressione di trovarsi davanti a un bizzarro documentario, più che a un mockumentary, diventa via via più palpabile. Offrendo passaggi alle proprie vittime mancate e sciorinando domande intime sulla loro vita personale, l’immagine mediatica dell’attrice viene nascosta sotto un look decisamente inusuale.
La vera anima della dimensione di Glazer si raggiunge, però, nel misterioso antro in cui l’Aliena trasporta le proprie vittime.
Corpi eccitati, stessa ripetitiva angoscia musicale, uno spogliarello che sembra più danza femminile della morte, e il povero malcapitato che viene risucchiato nel liquido nero di cui sembra composto l’ambiente. Ci sarà data occasione di scoprire cosa accade alle mosche intrappolate nella ragnatela in una sequenza terrificante al limite del Cronenberg vecchio stampo.
La freddezza, con cui l’intero processo predatorio viene eseguito nei primi 45 minuti della pellicola, è al limite del disturbante.
Un’intera famiglia spazzata via, un neonato abbandonato a sé, un cane annegato.
Ciò che di buono potrebbe esserci nel mondo all’Aliena non importa; solo la missione è importante.
Nemmeno un accenno di umanità o anche di animalesco, solo il nulla di una razza sconosciuta che osserva la nostra come può capitare a noi di ispezionare una formica.
Il titolo nasconde l’enfasi; la pelle umana è un personaggio a parte da quello umanoide e inquietante che si cela sotto l’epidermide, e ad essa viene riservata la seconda parte.
L’incontro con un uomo gravemente sfigurato (interpretato da Adam Pearson, affetto da neurofibromatosi anche nella realtà) rappresenta sia la svolta che tutti desideravamo di vedere dalle prime immagini, sia la rappresentazione della scorciatoia messa in atto da Glazer.
L’incontro tra la bella e il deturpato che crede di essere in un sogno, la meraviglia di poter entrare in contatto con un essere finora sconosciuto.
Un azzeramento emotivo, o in questo caso estetico, che forza il bisogno di una nostra sensibilità nelle sequenze più emotive del pre-climax.
L’Aliena impara, si evolve, comprende la bellezza del corpo umano, sia esso perfetto o imperfetto, il concetto di desiderio, l’impossibilità di poter corrispondere ai desideri della propria stessa pelle perché semplice illusione di un mondo a cui lei non appartiene. Poi, la fine.
Il viaggio è sorprendente, quasi sempre coinvolgente, ma è anche un trucco. Ci è stata negata la componente emotiva nella prima metà, e ora ne siamo terribilmente affamati. Se poi questa piomba nel mentre di un turnaround narrativo ed è anche splendidamente composta e orchestrata, allora potremmo essere in difetto di oggettività.
Ma Under The Skin è prima di tutto un’esperienza visiva e sonora di un ermetismo a tratti eccessivo, colmo di sfumature e inviti alla riflessione non così comuni nel panorama cinematografico, perciò le forzature potrebbero far parte di un disegno più grande, forse necessario per la formazione di un’idea del tutto legata al gusto di Glazer e alla sua sensibilità.
L’intero complesso è un simulacro di emozioni e idee e c’è spazio per ogni genere di interpretazione. C’è innovazione, c’è una componente visiva meravigliosa, un mix di paura e meraviglia inusuale, un finale narrativamente debole, ma tematicamente impressionante per ciò che lascia intendere, la percezione di una dimensione oltre le nostre teste, l’innalzamento oltre la tragedia della routine e dei limiti della percezione fisica.
Nonostante i tempi eccessivamente dilatati e l’ermetismo di cui si imbeve da una sequenza all’altra, Under The Skin sopravvive alla sua stessa decadenza ritmica e ambiziosa, sfiorando corde al limite della repulsione e al limite della bellezza, tergiversando unicamente su ciò che garantisce legami e reazioni.
Il corpo, le emozioni, la natura, il ventre materno in cui trovare conforto e protezione.
Un gioco facile, forse, ma in grado di parlare come pochi altri film sanno fare.
Luca Malini
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