Babylon, la recensione del film di Damien Chazelle

L’ultimo lavoro di Damien Chazelle sta dividendo l’opinione pubblica. In fin dei conti l’autore di La La Land lo sapeva che Babylon non avrebbe avuto vita facile, che si prestava ad essere divisivo, lo sapeva fin da quando quindici anni fa ha scritto la prima stesura della sceneggiatura. Con un’evidente ambizione e un fare provocatorio, Chazelle racconta un momento topico nella storia del Cinema e di Hollywood, il passaggio dal muto al sonoro, e tutta la deflagrazione che si è trainata dietro, tanto culturale quanto lavorativa e ideologica, che ha portato la “Fabbrica dei Sogni” a rivedere completamente l’impianto produttivo e le logiche del divismo.

Babylon, il titolo è già emblematico. Una parola che innesca un meccanismo a scatole cinesi decisamente interessante.

La storia del Regno di Babilonia è nota: quella che era la città più ricca e potente e dall’estensione geografica più imponente fino alla fine del VI secolo a.C. si trovò progressivamente ad andare incontro al declino, fino ad essere abbandonata. Così la Hollywood dell’età del muto, che aveva raggiunto il culmine con film di grande successo e divi amatissimi dal pubblico ma, da un momento all’altro, si trovò in profonda crisi a causa del progresso.

Hollywood Babilonia è il tiolo di un celebre saggio di Kenneth Anger che racconta, con dovizia di aneddoti, il lato oscuro di Hollywood, quello che il pubblico non vede e non conosce, i vizi, i crimini, le perversioni delle Star e gli episodi più eclatanti della Storia del Cinema. L’intento di Chazelle è esattamente quello di gettar via ogni filtro e mostrare allo spettatore, con un doveroso telo di romantico decadentismo nostalgico, la merda di cui era ed è ammantata Hollywood. L’ironia della sorte vuole che uno dei momenti più appassionanti del saggio di Anger sia il racconto del fallimento di Intolerance, il kolossal del 1915 di David W. Griffith, che ha il suo apice nell’episodio sulla caduta di Babilonia. Al di là del flop economico del film che portò al fallimento della casa di produzione (la Triangle), è noto come il maestoso set che ricostruiva Babilonia non fu smontato e rimase per circa cinque anni alla mercé dell’abbandono, proprio come la città mesopotamica che riproduceva. Il film di Damien Chazelle, al momento in cui scriviamo, sta incontrando difficoltà a trovare un suo pubblico e il favore della critica, tanto che in USA è già stato etichettato come flop.

È un fatale gioco a scatole cinesi, come si diceva, in cui il significato e il significante si ricorrono a tal punto da sovrapporsi, da fondersi in un unico affascinante discorso metatestuale.

Ed è ironico come uno dei migliori film sul Cinema sia anche un film che smonta Hollywood, la fa a pezzi mostrando il suo lato più oscuro; sembra quasi odiare quel mondo mettendone alla berlina i vizi, fino ad arrivare ad un’anomala quadratura del cerchio nel climax finale in cui ci rendiamo conto che tanto astio grottesco porta a un atto d’amore assoluto tanto per la Settima Arte quanto per quel mondo turbolento e contraddittorio che è la stessa Hollywood.

Forse non è neanche un caso che Babylon arrivi al cinema a pochi mesi di distanza di un altro film d’autore molto discusso che distrugge lo Star System, Blonde di Andrew Dominik, con il quale l’opera di Chazelle pur condividendo poco o nulla (sia nella forma che nel contenuto) trova un trait d’union nel tentativo contraddittorio di celebrare il cinema sottolineandone gli aspetti negativi.

Babylon ci racconta la “caduta” di Hollywood dal punto di vista di tre personaggi: il factotum Manuel “Manny” Torres (Diego Calva), l’aspirante attrice Nellie LaRoy (Margot Robbie) e il divo Jack Conrad (Brad Pitt). I tre si conoscono durante un party selvaggio in cui Manny è coinvolto nell’organizzazione, Nellie è imbucata e Jack è uno degli ospiti più celebri. Da questo momento seguiamo le loro vite: come Nellie riesce a sfondare nel mondo del cinema grazie alla sua esuberanza e alle unicità recitative, Manny scala a poco a poco le vette del potere fino ad arrivare in produzione, mentre di Jack scopriamo le complicate avventure sentimentali, la lotta con la dipendenza da alcool e le imprese lavorative. Fino allo zenit dell’uscita de Il cantante di Jazz, che rappresenta un punto di non ritorno per l’industria cinematografica segnando una rivoluzione produttiva importante che metterà in crisi sia i “vecchi” del muto, come Jack Conrad, sia le stelline in ascesa come Nellie. Attorno a loro tre gravitano tante altre storie e personaggi, come il jazzista Sidney Palmer (Jovan Adepo), la performer e addetta alle didascalie Fay Zhu (Li Jun Li), il produttore George Munn (Lukas Haas) e la giornalista Elinor St. John (Jean Smart), le cui carriere sembrano fatalmente connesse più di quanto potremmo immaginare.

L’ex enfant prodige Chazelle è a ruota libera realizzando un’opera roboante, oltraggiosa, ipertrofica, colma di personaggi, tematiche, situazioni, smisurata tanto nella messa in scena quanto nel minutaggio (189 minuti di durata). Babylon è un inno alla vita, un film gigantesco e sanguigno, emozionante e perfino irritante, è un qualcosa di mai visto prima per come fa sue influenze cinematografiche e letterarie alte e basse, per come cuce assieme un immaginario pop ricchissimo mixandolo con riferimenti autoriali e un’ambizione complessiva smisurata.

Si arriva alla fine di questa corsa ricca di ritmo tanto entusiasti quanto storditi, perché Babylon ha proprio questa natura schizofrenica: da una parte bombarda lo spettatore di immagini, colori, musica; dall’altra tenta di allontanarlo con momenti sgradevoli insozzati di merda, piscio e vomito, personaggi gretti e un importante nichilismo di fondo; da un’altra ancora colpisce diritto al cuore, ti fa appassionare ai personaggi, crea un mondo vivo e vivace fino a svelare la sua natura di emozionante e sincero tributo al Cinema.

La struttura in tre atti di Babylon non è quella canonica, l’intro di ben 32 minuti prima che compaia il titolo ne è già una chiara dimostrazione e il film ci sembra, anzi, come caratterizzato da due vistose tranche. C’è il muto e c’è il sonoro. C’è l’ascesa e il declino. In entrambi i casi si mostra un cambiamento, anche se a flusso invertito, un movimento costante che si collega idealmente al montaggio concitato. E se la prima tranche è nel segno dell’esuberanza e della commedia, la seconda si addentra nel dramma, con dei picchi grotteschi che lo avvicinano al genere horror, come accade nel meraviglioso episodio con Tobey Maguire che mette in scena una metaforica (neanche troppo) discesa agli Inferi.

Sicuramente Babylon si presta ad essere recepito male da un determinato pubblico, è un film davvero eccessivo, a tratti disturbante, barocco nella forma e davvero denso nel contenuto. Però è un film armonico nel suo disordine, che trova proprio in questa anarchia generale un senso coerente, ma soprattutto è un film che riempie gli occhi e le orecchie. Ancora una volta Chazelle ci racconta quanto per lui sia importante il comparto sonoro di un’opera – film o serie che sia, perché non dimentichiamo che ha diretto anche la miniserie Netflix The Eddy, sul mondo della musica – in un percorso autoriale davvero compatto e interessante.

Ma Babylon è anche un trionfo visivo, di scenografie, di costumi, di trucco e parrucco, sempre all’insegna del “more is more”, con una fotografia pazzesca (opera di Linus Sandgren) e una regia che rende giustizia al fatto che Chazelle ha portato a casa un Oscar all’età di 32 anni.

Babylon è come se 8 e ½ di Fellini si scontrasse con Boogey Nights di Paul Thomas Anderson, un film folle e unico, una scheggia meravigliosamente impazzita che rifugge qualsiasi logica dell’odierna standardizzazione cinematografica.

Babylon è uno stupendo quadro pop d’autore e se lo odierete vorrà dire che avrà colto nel segno allo stesso modo che se lo amerete.

Roberto Giacomelli

PRO CONTRO
  • È un racconto singolare di una importante fase di transizione nella storia del Cinema.
  • Il comparto tecnico, tutto.
  • La visione incredibilmente coerente di Damien Chazelle.
  • Un cast perfetto, con Brad Pitt e Margot Robbie in testa.
  • Può infastidire sia per la sua costante ricerca dell’eccesso sia per il modo schietto e grottesco di come rappresenta il dietro le quinte del mondo del cinema.
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