Bullet Train, la recensione
In una notte apparentemente come tante, qualcosa di incredibile si prepara ad accadere sullo Shinkansen, ovvero il “treno proiettile” ad altissima velocità che collega Tokyo a Kyoto. Ladybug, un’agente che si è sempre ritenuto perseguitato dalla sfortuna e al servizio di una misteriosa organizzazione, ha il delicato incarico di salire proprio sullo Shinkasen per rubare una valigetta dal contenuto segreto. Peccato che Ladybug non sia l’unico “passeggero speciale” a bordo del treno. Sul convoglio, infatti, viaggiano anche Lemon & Tangerine, ossia due logorroici sicari che tengono sotto sorveglianza il figlio adolescente di Morte Bianca, un temutissimo assassino russo divenuto capo di una fazione della yakuza. E non finisce qui! Sul treno c’è anche The Price, una ragazzina apparentemente indifesa ma con un piano diabolico in mente, poi c’è Hornet, leggendario assassino che si diverte a giocare con i veleni e infine Wolf, uno psicopatico messicano che desidera solo vendicarsi. Tanti personaggi, tante storie apparentemente slegate, eppure il loro incontro sul treno è tutt’altro che casuale.
Se ce lo avessero detto allora, forse non ci avremmo creduto! Nel 2022, ossia trent’anni dopo, l’industria cinematografica hollywoodiana si diletta ancora a partorire un entertainment che deriva – nemmeno troppo velatamente – da quel cinema gangeristico-pop portato alla ribalta dal buon Tarantino d’inizio carriera con i super influenti Le iene (1992) e Pulp Fiction (1994).
Un cinema che ha sicuramente ridisegnato un certo immaginario criminale, privando il killer di qualsiasi componente temibile per renderlo, esattamente al contrario, divertente e persino cool. Da quel momento, ad Hollywood, il sicario ha cominciato a fare tendenza e non si sono più contante le produzioni che hanno iniziato a scimmiottare quel cinema rivoluzionario d’inizio anni Novanta (un cinema che, non a caso, oggi definiamo come pulp). Quindi, mentre lo stesso Tarantino ha capito che doveva cambiare aria e si è mosso alla svelta verso altri lidi, Hollywood è rimasta incastrata su sé stessa e ha continuato a produrre indisturbata film pulp su film pulp. Tendenzialmente uno più inutile dell’altro.
Tra i vari emuli del primo Tarantino, sicuramente il più fortunato è stato il britannico Guy Ritchie che sin dai suoi esordi (Lock & Stock e subito dopo Snatch) ha dimostrato una certa abilità a muoversi in quel cinema pulp in cui i criminali sono fighi, parlano anziché agire e si esprimono come filosofi generando tendenze e modi di fare.
Quindi potremmo sintetizzare che Tarantino ha inventato un genere, Ritchie l’ha fatto proprio e Hollywood ha spremuto quel genere all’inverosimile sfornando tanta, ma tanta di quella roba tutta uguale che ha velocizzato il processo d’invecchiamento dello stesso filone. E così, soprattutto ad inizio anni duemila, i cinema (ma anche i circuiti home video) sono stati letteralmente invasi da film focalizzati sulle bizzarre e improbabili malefatte criminali, film in cui i generi si ibridavano fra loro e in cui l’action finiva per dialogare praticamente sempre con la commedia sofisticata.
Tra tutti questi film prodotti non sotto il marchio Tarantino o Ritchie vale la pena citare giusto Smokin’ Aces, un film che in un modo o nell’altro ha saputo influenzare più di altre opere.
Più o meno a partire dal 2010 l’industria cinematografica americana ha cominciato ad allentare un po’ la presa su questo filone. Ma allentare solamente, guai a mollarla, basti pensare che Sette psicopatici è del 2012 mentre solo nel 2018 usciva Sette sconosciuti a El Royale. Oggi quel filone gangeristico dall’animo scanzonato è giusto tenuto in vita ed ogni tanto qualche grossa major ci propone un aggiornamento sul tema. Uno svecchiamento, potremmo meglio dire.
Ora è il turno di Sony Pictures Entertainment che, adattando all’industria americana il romanzo del 2010 I sette killer dello Shinkansen del giapponese Kōtarō Isaka, mette insieme un manipolo di star e un regista che si è fatto notare nell’action per dare vita ad una nuova commedia d’azione sul mondo criminale, in cui tanti personaggi sopra le righe si incontrano, si scontrano, si azzuffano a casaccio fino allo svelamento dell’improbabile piano machiavellico che unisce inevitabilmente tutti i puntini.
Arriva dunque in sala Bullet Train, ultima fatica diretta in tempo di covid dal talentuoso David Leitch (Atomica Bionda, Deadpool 2 e Fast & Furious – Hobbs & Shaw) che racchiude all’interno di una sola location – il treno, appunto – una serie di celebrità destinate a portare in sala più gente possibile e a rispettare quella regola non scritta del filone che i criminali devono essere sempre più fighi, sempre più desiderabili. Tra le celebrità coinvolte, dunque, ecco emergere in prima linea l’inossidabile Brad Pitt e l’onnipresente Aaron Taylor-Johnson, a loro si affiancano Joey King, Brian Tyree Henry, Michael Shannon, Logan Lerman, Zazie Beetz e in piccoli cammei anche Sandra Bullock, Ryan Reynolds e Channing Tatum.
Come prevedibile, vista la firma del regista, che sembra aver appeso al chiodo qualunque barlume di serietà dopo l’action-spionistico con Charlize Theron, Bullet Train è un grosso giocattolone a stelle e strisce che non si prende mai sul serio.
Nella sua formula pulp, piuttosto che a Tarantino o a Ritchie, Bullet Train sembra guardare maggiormente nella direzione dei già citati Smokin’ Aces e Sette sconosciuti a El Royale. Dal primo, infatti, eredita il meccanismo legato ai tanti killer che si danno la caccia a vicenda pur senza saperlo, mentre dal secondo prende in prestito senza alcun dubbio la narrazione a incastro con un plot che si definisce pezzo dopo pezzo, attraverso rivelazioni e colpi di scena più o meno inaspettati. A tutto questo va ad aggiungersi proprio la firma e lo stile di David Leitch, in modo specifico il Leitch di Deadpool 2, e quindi ecco che Bullet Train assume anche l’aspetto di un gigantesco fumettone (sono più di due ore di durata!) in cui ogni cosa è virata verso l’assurdo, tutto tende in direzione dell’eccesso e il sopra le righe sembra essere l’unico spirito da inseguire.
Pugni, accoltellamenti, improbabili combattimenti fuori dal treno in corsa (ad altissima velocità!), serpenti velenosi in libertà tra le carrozze del treno fino alla contaminazione, nell’ultimo atto, con i film di yakuza in cui c’è spazio persino per lotte con la katana. In tutto ciò, e ancora una volta ecco che si avverte quello spirito che si respirava anche nel cinecomic dedicato al supereroe chiacchierone, non possono mancare momenti fortemente grandguignoleschi in cui si eccede in spruzzate di splatter improvvise utili a donare al film un carattere sempre più eccessivo, sempre più goliardico e sempre più irriverente.
Insomma, sembrano esserci davvero tutti gli ingredienti giusti per una goduria da gustare a cervello spento. Un’affermazione che è vera, ma solo in parte.
Non si può certo dire che Bullet Train non sia un film capace di intrattenere, in modo specifico se si è amanti di questo cinema-giocattolo in cui tutto urla finzione. Eppure, anche tenendo ben in mente lo spirito del film e le sue intenzioni, non tutto funziona come dovrebbe nel film di Leitch e alla fine della corsa Bullet Train risulta essere un film più antipatico che divertente.
Un po’ come quegli amici di amici che si incontrano per caso in cene di gruppo, quelle persone che vogliono stare necessariamente al centro dell’attenzione adottando atteggiamenti fin troppo brillanti ed espansivi. Quelle persone che fanno di tutto per farsi notare e risultare simpatiche ma che alla fine ottengono esattamente il risultato opposto, ovvero quello di suscitare antipatia.
Bullet Train è un po’ così, un film fastidiosamente compiaciuto che fa di tutto per piacere e risultare figo. Si impegna e pure tanto. Ma la sua è una simpatia falsa, artificiosa, costruita a tavolino e perciò non è simpatia.
Non c’è nulla di sincero nel film di Leitch, ogni cosa sembra messa in scena solo per dimostrare quanto il film possa essere piacente. A partire dai dialoghi, esageratamente abbondanti, a tratti estenuanti, vogliosi di apparire brillanti (i due sicari, Lemon e Tangerine, che non fanno altro che parlare del Trenino Thomas sono insopportabili) ma in realtà solamente infantili e sciocchi. E alla stessa maniera i caratteri di tutti i personaggi, dal protagonista costantemente in bilico tra la fortuna e la sfortuna alla falsa ragazzina indifesa, sono tutti così esagerati e carichi da apparire solo bidimensionali e macchiettistici.
Delude anche l’aspetto squisitamente legato all’azione. In due ore e mezza di durata, le scene dichiaratamente action sono due o tre e nessuna di queste riesce ad emergere in modo particolare, nonostante Leitch abbia più volte dimostrato di essere un maestro nella gestione delle scene frenetiche. Anche sotto quest’aspetto tutto risulta sempre troppo finto, a tratti persino plasticoso (la lunga scena del deragliamento del treno), un lungo scherzo che non capisce mai quando è bene fermarsi.
Insomma, Bullet Train è un cinema pulp declinato all’eccesso, un gioco in cui tutti, dal regista agli attori, sembrano ammiccare di continuo allo spettatore alla ricerca di un’approvazione. Ma stringi e stringi, quello che David Leitch sforna a questo giro è sicuramente un film più divertito che divertente.
Giuliano Giacomelli
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