Diabolik, quel Re del Terrore che non spaventa nessuno. Recensione/approfondimento del film dei Manetti Bros.
Clerville, fine anni ’60. La città è piegata dalle malefatte di un pericoloso criminale, ladro per alcuni e assassino per altri. Qualcuno lo chiama Il Re del Terrore ma la stampa – così come l’opinione pubblica – l’ha ribattezzato Diabolik. Una tuta nera aderente che gli permette di sgusciare nell’ombra senza essere visto, sguardo glaciale e pugnale affilato sempre a portata di mano: Diabolik è un criminale senza precedenti che tutti temono e tutti conoscono. A dargli la caccia ormai da anni c’è l’ispettore Ginko, pronto a tutto pur di mettergli le manette e scoprire la sua vera identità. Quando a Clerville fa il suo arrivo la ricca ereditiera Lady Eva Kant, che con sé ha un diamante rosa dal valore inestimabile, l’ispettore Ginko non ha dubbi sul fatto che Diabolik possa agire da un momento all’altro. E questo, infatti, è ciò che accade. Rubando l’identità al cameriere personale di Lady Kant, Diabolik riesce ad intrufolarsi nella camera d’albergo della ricca ereditiera cadendo però vittima dell’incredibile fascino della donna. Ginko riesce finalmente a mettergli le manette e portarlo a processo. Adesso per Diabolik – che nel frattempo si è scoperto essere l’enigmatico Walter Dorian – è giunta l’ora di mettere in atto il suo colpo più difficile: fuggire prima d’essere consegnato alla ghigliottina e, possibilmente, farlo grazie all’aiuto di Lady Eva Kant.
Con l’uscita nella sale di Diabolik scritto e diretto dagli ormai iconici Manetti bros. giunge finalmente a nozze quel matrimonio – tra fumetti e settima arte – che sembrava esser divenuto ormai impossibile. Una sorta di leggenda, proprio come il suo protagonista.
Creato nell’ormai lontano 1962 da Angela e Luciana Giussani e distribuito dalla casa editrice milanese Astorina (che ad oggi sopravvive grazie esclusivamente alle vendite di Diabolik), questo Re del Terrore non ha certo bisogno di presentazioni.
Assieme al cowboy bonelliano Tex Willer e al decisamente più giovane indagatore dell’incubo Dylan Dog, Diabolik è senza ombra di dubbio il più iconico e famoso personaggio appartenente al mondo dei fumetti popolari made in Italy. Un ladro infallibile ma anche un assassino senza scrupoli, un anti-eroe per eccellenza capace di divenire in poco tempo un vero e proprio fenomeno di costume che ha portato alla nascita del fumetto nero italiano e all’esplosione dei fumetti in formato tascabile (un formato reso celebre in Italia proprio da Diabolik). Ad oggi sono stati pubblicati più di 800 numeri, ha venduto oltre 150 milioni di copie, ha dato vita ad uno sterminato merchandising e persino ad una serie animata realizzata nel 1999 in coproduzione tra Saban International, M6, Fox Television e Mediaset Italia.
Quando ci provò Mario Bava…
Un moderno Fantômas capace di generare un vero e proprio immaginario, di creare una fandom che sopravvive da oltre sessant’anni e che ha saputo fare tendenza giocando proprio sul fascino indiscreto del terrore, un pericolo che diventa seducente, che smette di far paura e anzi, al contrario, ammalia.
Una miniera di diamanti che non poteva certo restarsene lontana dal cinema e infatti nel 1968 arriva la prima trasposizione cinematografica del personaggio creato dalle sorelle Giussani, Diabolik (all’estero conosciuto come Danger Diabolik) diretto Mario Bava. Un film divenuto oggi un piccolo cult ma al tempo stesso anche un’operazione che ha saputo dividere come poche altre: da una parte, infatti, l’apprezzato tentativo di aver portato sul grande schermo personaggi e avventure che si erano lette sugli albi tascabili del Re del Terrore (dal perfido Valmont all’iconica scalata della torre), ma dall’altro lato non è stata gradita da tutti la scelta di immergere il personaggio di Diabolik all’interno di un immaginario squisitamente pop come quello creato da Bava. Colori psichedelici, soluzioni visive avanguardistiche, svolte narrative “fumettose” e una colonna sonora sessantottina ad opera del Maestro Ennio Morricone. Tutte scelte mirate a coccolare lo spettatore amante del cinema di genere ma forse meno i fan puritani del fumetto. Fatto sta che il film di Bava si è rivelato un insuccesso ai botteghini e ha messo la parola “fine” ad una saga cinematografica che ancora non era nemmeno nata.
Da quel momento, dunque dalla fine degli anni ’60, Diabolik – da perfetto ladro – ha disperso le sue tracce al cinema. Da allora si sono susseguite moltissime notizie circa ipotetici nuovi adattamenti audiovisivi dell’opera delle sorelle Giussani tanto che nel 2012 si vociferava persino di una serie tv prodotta da Sky Cinema di cui circolava persino un suggestivo e molto allettante teaser trailer (che potete visionare qui).
Tutti progetti destinati ad abortire a stretto giro, tutti bocciati dalla rigida etica della casa editrice Astorina che ha più volte ammesso di non voler vedere snaturato il loro beniamino con la calzamaglia nera.
… e dopo più di 50 anni, ci riprovano i Manetti Bros.!
Un percorso di adattamenti e successi, annunci e smentite durato più di sessant’anni ma utile a condurci fino a qui: ovvero fino al nuovo adattamento cinematografico di Diabolik fortemente voluto dai Manetti bros. (noti fan del fumetto delle Giussani), fortemente voluto da Rai Cinema e fortemente voluto anche da Mario Gomboli, fumettista, sceneggiatore e illustratore nonché editore del fumetto Diabolik.
Un’operazione cinematografica che si è dimostrata sin da subito senza eguali sul mercato italiano, una trilogia avviata ancor prima di vedere le reazioni del pubblico al primo film (mentre esce nelle sale Diabolik sono già avviate da mesi le riprese di Diabolik 2 e Diabolik 3, girati nella formula back-to-back sempre dai Manetti bros.) ed anche un’azione di marketing mastodontica come raramente si è visto in Italia.
In un periodo storico come questo in cui l’industria cinematografica internazionale è oggettivamente sostenuta dai cinecomics era impossibile che l’Italia rimanesse a guardare. E così, mentre ad Hollywood continua ad impazzare il fenomeno Marvel Cinematic Universe o DC Extended Universe, in Italia iniziano ad accadere le prime cose: le tavole di Zerocalcare diventano una serie animata di successo su Netflix (Strappare lungo i bordi), Gabriele Mainetti continua a mettere in piedi il suo personalissimo “Mainetti-Verse” (Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out) e 01 Distribution porta al cinema in pompa magna – oltre 500 copie! – quello che di fatto è il primo vero cinecomic moderno partorito dall’industria cinematografica italiana: Diabolik.
Non stupisce di certo ritrovare in cabina di regia i Manetti bros. e questo mancato stupore non ha nulla a che spartire con il loro più volte dichiarato amore per il fumetto, bensì perché i due fratelli romani, nel corso degli anni, hanno saputo lavorare molto bene sulla loro immagine cinematografica.
In relativamente poco tempo sono passati dall’essere registi di videoclip della scena underground romana (da Piotta ai Flaminio Maphia) a piccoli film di genere di stampo squisitamente indipendente (da Zora la Vampira a Piano 17 fino ad arrivare a L’arrivo di Wang e Paura 3D). Poi è arrivato il loro battesimo in Rai, avvenuto con le fiction Il Commissario Rex ma soprattutto L’ispettore Coliandro, perfetto connubio tra fiction italiana e tutto quel “cinema bis” che i Manetti avevano dimostrato di amare/omaggiare nei loro lungometraggi a basso budget. Grazie a L’ispettore Coliandro i Manetti bros. si guadagnano la fiducia di Rai Cinema che decide di sostenerli in progetti ambiziosi – e poi di successo – come Song ‘e Napule (2013) e Ammore e malavita (2017), un dittico in cui i Manetti esternano il loro amore per i musicarelli italiani e per il “poliziottesco” anni ’70. Con Ammore e malavita si portano a casa cinque David di Donatello a fronte di quindici nomination, i Manetti bros. sono ufficialmente il volto di un cinema alternativo italiano. Un cinema di genere che ha saputo mettere d’accordo critica, pubblico e vertici produttivi. Un cinema diverso, in Italia, adesso sembra possibile e i Manetti bros. rappresentano la giusta garanzia per poter finalmente rimettere le mani sul temutissimo Re del Terrore.
Perché Diabolik 2021 non funziona.
Dopo una pandemia mondiale che ha notevolmente rallentato la lavorazione – e di conseguenza l’uscita del film –, dopo una campagna marketing iniziata da più di un anno con teaser poster e teaser trailer giocati sul continuo “vedo e non vedo”, il Diabolik dei Manetti bros. compie finalmente il suo debutto sul grande schermo e il risultato è…un epocale disastro!
Qualche dubbio sulla bontà dell’opera, nonostante il notevolissimo impianto produttivo, era sorto già da tempo e a far storcere subito il naso ci aveva pensato proprio la scelta del protagonista, Luca Marinelli, un miscasting incredibile che denota l’incapacità del nostro attuale sistema produttivo ad assegnare ruoli con cognizione di causa. Con uno sguardo spento e quasi addormentato ed un fisico poco scolpito, non era difficile immaginare un Diabolik tutt’altro che ipnotico una volta indossata l’iconica tutina nera aderente. Ad aggravare ulteriormente la questione “interprete di Diabolik” ci ha pensato la notizia che sta rimbalzando sul web ormai da qualche settimana, ossia che, a causa di diverbi con la produzione, Luca Marinelli ha deciso di non tornare nei panni di Diabolik nei due sequel attualmente in lavorazione. Una trilogia, dunque, che non si può certo dire avviata con il piede giusto.
Ma stavamo parlando delle perplessità che aleggiavano sul progetto Diabolik ancor prima che il film si presentasse al pubblico pagante. Ecco, se una era incarnata proprio dalla scelta del suo protagonista, la seconda (e più importante!) era rappresentata dalla scelta dei registi. Già, perché anche se eletti ad icona del cinema di genere made in Italy e forti sostenitori di tutto quel movimento cinematografico italiano che ruotava attorno a divi come Tomas Milian, Franco Nero, Maurizio Merli, Henry Silva e Luc Merenda, i fratelli Manetti hanno già dimostrato con i loro lavori precedenti d’essere portati a far commedia piuttosto che cinema serioso. Meno che mai, adatti ad inscenare sequenze al cardiopalma o comunque d’azione (si pensi a Song ‘e Napule che riusciva a dare il suo peggio nelle scene d’azione o nelle goffe coreografie musicali in Ammore e malavita). Con questi precedenti, dunque, era più che legittimo riservarsi dei dubbi sul risultato finale.
E così è stato infatti, perché questo nuovo adattamento cinematografico di Diabolik rivela tutti i limiti di due simpatici autori italiani che ormai possiamo considerare più avvezzi al piccolo schermo televisivo anziché quello della sala cinematografica.
I Manetti bros. sono sicuramente detentori di una grande cultura cinematografica, due simpatici nerd che fanno un cinema divertente e divertito, ma anche due registi che artisticamente sono rimasti “congelati” al loro cinema delle origini. Ormai molti film alle spalle, una nomea invidiabile, eppure il loro approccio a Diabolik sembra essere quello di un filmaker spaesato che non conosce la grammatica della messa in scena, la costruzione del pathos e il senso del ritmo. Si, perché anche se fa male affermarlo, il Diabolik dei Manetti bros. è un elettrocardiogramma piatto, un film che non riesce a dialogare in nessun modo con lo spettatore a causa di una serie di scelte sbagliate, sbagliatissime, pronte a dimostrare sì la loro conoscenza dell’opera delle Giussani ma anche la loro inadeguatezza nei confronti di un genere – il crime misto all’action – che dovrebbe catturare lo spettatore sin dal primo minuto, senza mollarlo mai.
E invece il loro Diabolik è esattamente l’opposto.
Con una messa in scena da vecchia fiction da prime time, questo nuovo Diabolik è l’emblema di un cinema che vorrebbe essere moderno ma non ha i mezzi e le competenze per poterlo essere davvero. Guardando il film, purtroppo, si respira continuamente uno sgradevole odore di muffa e si ha la sensazione che ci sia un manto polveroso ad avvolgere ogni cosa, dalla bruttissima fotografia patinata alle scenografie artificiose, dai costumi ingessati alla recitazione degli attori.
Ogni cosa è vecchia in Diabolik, nulla riesce ad essere al passo con i tempi. Ma occhio a non confondere il vecchio con il vintage, perché se il tentativo era quello di strizzare l’occhio a certo cinema del passato ricordiamo che tutto quel cinema era avvalorato da requisiti tecnici tutt’altro che discutibili (basti pensare proprio al Diabolik di Mario Bava, ancora oggi più moderno di tanto cinema moderno).
Azione senza azione.
In questa nuova versione cinematografica di Diabolik tutto inizia a scricchiolare malamente sin dall’introduzione, un inseguimento tra le vie di Clerville (in realtà Bologna) a bordo dell’iconica Jaguar. Tutto è sbagliato, dalla regia al montaggio passando per l’accompagnamento musicale, un tandem di scelte infelici che testimoniano sin da subito la maldestrezza nel mettere in scena situazioni action che non siano goffe e fiacche (perciò anche ridicole).
Dopo questo primo inseguimento in auto della durata di pochi minuti, il film cambia mood e si adagia su un ritmo lento e verboso, in cui non c’è più spazio per momenti adrenalinici ma tutto assume i toni del dramma da camera. Si parla tanto, troppo, tutto diventa statico e tedioso e il ritmo è inesistente. Non aiuta di certo il minutaggio esasperante, 133 minuti di dialoghi, con il risultato che si sbadiglia tanto e non si avverte mai la tensione.
Eva Kant e l’ispettore Ginko.
Traendo ispirazione in modo particolare dal volume numero 3 di Diabolik, ovvero L’arresto di Diabolik pubblicato nel 1963, i fratelli Manetti ci introducono al mondo del Re del Terrore prendendo subito il punto di vista della bellissima ereditiera Eva Kant.
In primis vittima designata di Diabolik ma subito dopo amante oltre che salvatrice e complice, Eva Kant sembra essere la vera protagonista del film e questa appare subito come una scelta oculata e che lascia ben sperare. Sposare il punto di vista di un personaggio inizialmente estraneo alla vicenda, anzi una potenziale vittima, appare come un modo decisamente intelligente per raccontare il Re del Terrore e tutta la sua mitologia.
Parlare di Diabolik senza che esso sia centrale nella vicenda. Raccontare Clerville – la città immaginaria creata dalle Giussani – e il suo “mostro” partendo da coloro che gli orbitano attorno, Lady Kant ma anche il tenace poliziotto (Ginko) che continua imperterrito a dargli la caccia. Ma in pochi minuti il film tradisce questa nobile intuizione e con lo scocco della scintilla amorosa tra Diabolik ed Eva Kant, il film sposa una narrazione corale che non riesce a gestire al meglio. Una narrazione che vanifica ogni forma di mistery, ogni tentativo di rendere tale la mitologia di Diabolik e soprattutto che non riesce a dare il giusto spessore ai suoi personaggi che restano tristemente bidimensionali. Tutti.
Se Eva Kant, interpretata dalla sempre bella e brava Miriam Leone, ad occhio e croce risulta essere il personaggio meglio tratteggiato della vicenda, lo stesso non si può dire dell’ispettore Ginko che ha il volto di Valerio Mastandrea, imbolsito e ridotto a macchietta di poliziotto tutto d’un pezzo che fuma la pipa, imprigionato in un rapporto di amore/odio con il celebre ladro. Alle prese con un personaggio ben collocato in un preciso immaginario e costretto a recitare in dizione perfetta, Mastandrea mette in luce molti suoi limiti dimostrando che quando si esce dalla comfort-zone della parlata romana tutto diventa più difficile. E questo è un problema di pigrizia che attanaglia molti attori italiani, non solo Mastandrea.
Un Diabolik poco diaboliko.
Ma come già accennato in precedenza, il peggio è offerto proprio da Diabolik, aka Walter Dorian, aka Luca Marinelli. Forse alle prese con un copione che non lo soddisfaceva abbastanza o schiacciato da dinamiche produttive di cui non ci è dato sapere, Marinelli si approccia al personaggio in modo evidentemente svogliato. Il suo è un Diabolik spento, monocorde, tutt’altro che ammaliante. Con lo sguardo costantemente perso nel vuoto, il suo Diabolik non incute terrore, non genera mistero e non affascina come dovrebbe. Un fallimento su tutta la linea, purtroppo, un miscasting che riesce ad andare ben oltre le problematiche legate al phisique du role.
A completare il cast troviamo anche Serena Rossi che interpreta Elisabeth, la moglie di Walter Dorian, e Alessandro Roja nei panni del vice-ministro Caron, entrambi determinati a portare una ventata di autentica “fiction tv” su tutta l’opera. Si aggiungono in piccolissimi ruoli anche Claudia Gerini, Stefano Pesce, Roberto Citran e Giovanni Calcagno.
Vogliosi di restituire sul grande schermo una trasposizione cinematografica capace di catturare l’essenza originale delle tavole del fumetto e quel look da crime-drama vagamente noir, i Manetti bros. confezionano un film completamente privo di anima e privo di vita. Diabolik è un film spento e impolverato, esteticamente fuori mercato e incapace sia di rievocare il cinema del passato che di dialogare con il cinema moderno. Diabolik non è grande cinema d’intrattenimento ma una mediocre fiction televisiva prestata al grande schermo.
Dispiace essere così taglienti ma questo non è il cinema di genere che fa bene alla nostra “industria”. Soprattutto in un periodo in cui l’Italia ha dimostrato di poter raggiungere traguardi importanti con operazioni come i già citati Fraks Out di Mainetti o la serie animata Strappare lungo i bordi. E qui non si sta facendo un discorso qualitativo, bensì relativo alla capacità di saper guardare al presente con la consapevolezza di un’industria che dovrebbe davvero ambire a diventare tale.
a cura di Giampaolo Ristori
PRO | CONTRO |
|
|
Diabolik, quel Re del Terrore che non spaventa nessuno. Recensione/approfondimento del film dei Manetti Bros.,
Lascia un commento