Il più bel secolo della mia vita, la recensione

In Italia esiste una legge molto particolare, una legge utile a tutelare il diritto di segretezza nei confronti di tutte quelle mamme che hanno deciso di non riconoscere il proprio figlio al momento della nascita. È la legge 184 del 1983 (poi aggiornata con la 149 del 2001), una legge ritenuta per lungo tempo anticostituzionale poiché andrebbe in conflitto con il diritto naturale di ogni essere umano a conoscere le proprie origini. Da questo “cortocircuito” legislativo, che affonda le proprie radici nell’etica e nella moralità, prende vita Il più bel secolo della mia vita, opera prima di Alessandro Bardani.

Qui ci viene raccontata la storia di Giovanni, un giovane volontario della FAeGN (Associazione Nazionale Figli Adottivi e Genitori Naturali), che da sempre lotta contro il Sistema giuridico per conoscere l’identità della sua madre biologica che ha deciso di non riconoscerlo al momento della nascita. Per cercare di combattere questa legge italiana, ma soprattutto per provare a persuadere il Ministro degli Interni ad intervenire su questa legge, Giovanni decide di rivolgersi al signor Gustavo, un uomo di cent’anni che vive in un istituto gestito dalle suore. Anche Gustavo non è stato riconosciuto dalla madre e adesso che ha compiuto cento anni può finalmente avvalersi del diritto di avanzare domande circa la sua madre biologica. Ma a Gustavo, un vecchio cinico e disilluso nei confronti della vita ma ancora pieno di energie, non frega nulla di conoscere l’identità della madre. Giovanni e Gustavo iniziano così un lungo viaggio on the road che li condurrà a Roma. I due, emotivamente distanti e caratterialmente opposti, avranno modo di conoscersi durante il tragitto e di imparare tanto l’uno dall’altro.

A tre mesi di distanza dal “buono ma non eccezionale” Denti da squalo di Davide Gentile, arriva nei nostri cinema la seconda opera prima che porta il marchio produttivo della Goon Films di Gabriele Mainetti, ormai pronto ad ostentare quella giusta sicurezza che lo pone nella condizione di poter produrre anche i film degli altri e non solamente i suoi.

Quindi dopo quello di Davide Gentile, che si presentava come un curioso ibrido tra il coming-of-age e il crime-movie in un contesto in cui trovava spazio anche un feroce squalo rinchiuso in una piscina, Gabriele Mainetti scommette su Alessandro Bardani e si cimenta anche lui con una commedia tout court nel perfetto stile italiano e dunque in antitesi con quel cinema dall’eco fantastico che, fino ad ora, ha caratterizzato tutto il percorso cinematografico del regista di Lo chiamavano Jeeg Robot.

Classe 1978 e con una gavetta alle spalle che lo ha visto molto attivo come sceneggiatore (possiamo ricordarlo per aver firmato lo script di commedie come La mia banda suona il Pop di Fausto Brizzi o Amici come prima di Christian De Sica), Alessandro Bardani si era fatto conoscere in qualità di regista nell’ormai lontano 2013 con Ce l’hai un minuto?, un cortometraggio molto divertente ed intelligente che, utilizzando il linguaggio dello sketch e l’espediente dell’equivoco, sapeva riflettere in modo tutt’altro che scontato sulle divergenze culturali fra le generazioni.

Adesso finalmente approccia la regia di un lungometraggio e lo fa rimanendo ancorato al suo genere di riferimento, la commedia appunto. Decide di esordire dietro la macchina da presa traducendo sul grande schermo un suo spettacolo teatrale, intitolato sempre Il più bel secolo della mia vita ma interpretato sul palcoscenico da Giorgio Colangeli e Francesco Montanari (che erano anche i due protagonisti del suo corto già citato).

Nel passaggio dal teatro al grande schermo il cast artistico cambia e così Colangeli e Montanari vengono sostituiti da Sergio Castellitto e Valerio Lundini, un’accoppiata assolutamente bizzarra e imprevedibile ma che, tuttavia, rivela sin da subito un’alchimia particolarmente affiatata e vincente. È proprio nell’azzeccato cast che possiamo individuare il primo, vero e grande punto di forza del film di Bardani, perché è un cast che viaggia indubbiamente sul sicuro ma che, al tempo stesso, prova a sperimentare assumendosi i dovuti rischi.

Sergio Castellitto, opportunamente invecchiato dal sempre eccezionale Andrea Leanza (David di Donatello per il trucco su Favino in Hammamet di Gianni Amelio) per poter sembrare un centenario, si rivela la scelta perfetta per interpretare Gustavo, un vecchio che non riesce a stare in piedi ma che tuttavia non ha ancora dimenticato la grinta di quando era giovane. Pur essendo cresciuto sin da piccolo negli istituti gestiti da suore, Gustavo è uno che la sua vita se l’è goduta. Ha saputo accontentarsi di quello che aveva, si è gustato il presente e dunque ha sempre guardato al futuro senza voltarsi a pensare al passato. Sulle capacità artistiche ed istrioniche di Sergio Castellitto, ovviamente, credo che nessuno possa avanzare dubbi o perplessità.

Ecco, dunque, che la vera sfida artistica – e dunque quella voglia di Bardani di assumersi qualche rischio – viene vinta inaspettatamente da Valerio Lundini, noto comico e conduttore televisivo, già approdato davanti la macchina da presa (in ruoli secondari) nei film Nel bagno delle donne e Gli idoli delle donne ma qui alla sua prima vera prova da attore, per la prima volta protagonista incontrastato della scena.

A Valerio Lundini viene chiesto di interpretare Giovanni, il personaggio sicuramente più difficile fra i due, compagno di viaggio di Gustavo nonché suo perfetto opposto. Giovanni è un ragazzo risoluto, eppure terribilmente fragile, schematico e formale ma costantemente impaurito dal rischio di sbagliare. A differenza di Gustavo, Giovanni è fortemente ossessionato dalla voglia di conoscere la sua madre biologica e questa sua bramosia non lo mette nella condizione di potersi godere tutto ciò che ha, a partire da una madre adottiva che c’è sempre stata e non gli ha mai fatto mancare nulla.

Forte di un umorismo molto concettuale ma anche caratterizzato da una dizione tutt’altro che perfetta (una “r” moscia particolarmente evidente), Lundini non rappresentava certo una sicurezza, soprattutto nel momento in cui viene chiamato a fronteggiare una prima donna dello spettacolo come lo strabordante Sergio Castellitto.

E invece, a sorpresa, la chimica fra i due è perfetta, Lundini tiene testa a Castellitto dall’inizio alla fine e tra i due si innesca una guerra che viene combattuta costantemente ad armi pari. Complice anche la capacità registica di Bardani, ne Il più bel secolo della mia vita nessuno dei due mattatori finisce per essere spalla dell’altro. Lundini e Castellitto si dividono la scena perfettamente e danno vita ad una coppia che, seppur stereotipata nelle loro divergenze caratteriali (cinico e grezzo uno, timido e preciso l’altro), funziona tantissimo e in molti momenti riesce persino a rievocare – data anche la struttura on the road del film ma con tutte le differenze del caso – il magistrale duo Gassman-Trintignant de Il Sorpasso.

Quella di Alessandro Bardani è una commedia che prova a riappropriarsi di certi codici nostrani, puntando molto, anzi tutto, su una scrittura che sa essere attenta alla struttura narrativa e che non ha nessun interesse né a rifugiarsi dietro a sterili umorismi e nemmeno a nascondersi in facili buonismi legati al messaggio morale.

Guardando molto alla nostra tradizione cinematografica e non ai modelli esterofili (come stanno facendo oggi tante commedie, anche buone, prodotte dalla Groenlandia di Matteo Rovere) Il più bel secolo della mia vita è una commedia che riesce a fiutare un soggetto piuttosto originale, fa ironia guardando alle contraddizioni insite nel Nostro Paese e non rifiuta, al momento giusto, anche momenti che sanno essere più amari, come il finale agrodolce che potrebbe anche far scendere qualche lacrimuccia allo spettatore più sensibile.

Tutto perfetto, dunque? Assolutamente no, purtroppo.

Pur essendo una commedia ben al di sopra dei nostri moderni standard, Il più bel secolo della mia vita riesce paradossalmente a rimanere vittima della sua stessa bontà. Si, perché dietro ad un minutaggio eccessivamente contenuto (si sfiorano appena i 90 minuti) si cela un film che non riesce fino in fondo a sfruttare tutte le potenzialità del proprio racconto. A fine corsa, infatti, si ha quasi la sensazione di essere stati testimoni di un bel discorso ma rimasto, proprio all’ultimo, strozzato in gola. Sembra quasi che ci siano stati rimaneggiamenti in post-produzione, magari al montaggio, con tagli apportati all’ultimo minuto solo per velocizzare la narrazione.

La sensazione è perciò quella di un film quasi asmatico, un film a cui manca un po’ il respiro, racchiuso in una struttura narrativa assolutamente corretta ma ostacolato da ritmi eccessivamente serrati. Tra una situazione ironica e l’altra, come da grammatica di tutte le storie on the road, Il più bel secolo della mia vita è un film che corre veloce verso la mèta sacrificando spesso pathos e sentimentalismo, privando così la storia di tutta quella dimensione interiore e struggente – che il film ci tiene comunque a suggerire – che avrebbe sicuramente reso il film più maturo e quel finale agrodolce ancora più incisivo ed efficace.

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
  • Una commedia che sa guardare alla nostra tradizione passata, riesce a far critica al Paese e, al tempo stesso, trova rifugio in una storia interessante ed anche originale.
  • Sergio Castellitto e Valerio Lundini sono una coppia cinematografica che funziona tantissimo.
  • Una narrazione che sembra avere ansia di arrivare ai titoli di coda, tutto così veloce da sacrificare quel pathos che avrebbe reso il racconto indubbiamente più maturo e convincente.
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