Il ritorno di Casanova, la recensione

Leo Bernardi è uno stimato e pluripremiato regista italiano che, superarti ormai i sessant’anni da un po’, si ritrova ad abbracciare una crisi esistenziale e professionale che lo sta mettendo alle corde. Ha da poco finito di girare il suo ultimo film, un adattamento cinematografico de Il ritorno di Casanova dello scrittore austriaco Arthur Schnitzler, ma adesso qualche cosa di intimo e molto personale sembra porsi fra lui e la fine del montaggio. Leo non vuole chiudere il suo film, tergiversa in ogni modo alla ricerca costante di una paventata perfezione, e ciò lo porta inevitabilmente in rotta di collisione con il suo caro amico e mentore Gianni, il montatore di tutti i suoi film, e con Alberto, il suo produttore storico che già sta vendendo la premiere de Il ritorno di Casanova al Festival di Venezia. Ma che cos’è che frena Leo Bernardi nel chiudere il suo film? Semplicemente la paura di non essere più infallibile come un tempo. La paura nei confronti d’aver fatto peggio di Lorenzo Marino, un giovane regista osannato dalla critica e anche lui in procinto di presentare il suo nuovo film a Venezia e la paura nei confronti di Silvia, una giovanissima contadina di cui si è innamorato e che adesso vive con lui sotto forma di ricordo.

C’è dell’incredibile in quello che sta succedendo alla Settima Arte. Superata la triste piaga del covid, infatti, sembra che molti stimati autori (internazionali e nazionali) abbiano avuto contemporaneamente la necessità di riflettere sul Cinema. Un cinema da intendere al tempo stesso come massima espressione dell’arte, come linguaggio narrativo ma anche come semplice luogo fisico in cui può avvenire qualcosa di magico. Una necessità artistica – quella di questi autori – di riflettere inevitabilmente su sé stessi, sul loro mondo, su un cinema che nel suo essere squisitamente totalizzante riesce ad essere molto di più che un semplice mestiere.

Ha aperto le danze Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio, poi è arrivato Alejandro González Iñárritu con il bellissimo e non-capito Bardo, la cronaca falsa di alcune verità, poi è stata la volta di Steven Spielberg con The Fabelmans, e subito dopo di Damien Chazelle con lo strabordante Babylon e persino Sam Mendes con l’altrettanto sottovalutato (anzi, proprio ignorato) Empire of Light.

Tutti film dal carattere estremamente diverso, caratteri pronti a rispecchiare l’essere e l’estro creativo dei rispettivi autori, ma anche film che, per più di una ragione, risultano complementari gli uni agli altri. Si, perché se Sorrentino, Iñárritu e Spielberg non hanno fatto nulla per nascondere la matrice autobiografica del racconto, non è che ci voglia molto a cogliere il pensiero e il vissuto personale di Chazelle o di Mendes nelle loro rispettive opere.

Questa febbre del “cinema che riflette sul cinema” torna a colpire l’Italia e questa volta, a sporcarsi le mani con un racconto sperimentale che desidera unire l’autobiografia al meta-cinema, ci pensa il Premio Oscar Gabriele Salvatores che, ormai superata la soglia dei settant’anni, continua a mostrare un’irresistibile tendenza alla sperimentazione visiva e narrativa. Si, perché dalla metà degli anni ’80 ad oggi, Salvatores ha sempre mostrato un’incontenibile voglia di rinnovarsi, mettendosi continuamente alla prova anche con forme narrative poco adatte alle sue corde (vedi il disastroso dittico su Il ragazzo invisibile).

Sai perché cadiamo Bruce? Per imparare a metterci in piedi!” diceva un saggio Thomas Wayne a suo figlio Bruce, in Barman Begins. E questo sembra essere anche il mantra di Gabriele Salvatores, che continua imperterrito a sperimentare e a mettersi alla prova, a rischiare dunque, perché è meglio cadere e sbagliare piuttosto che continuare pigramente a rimanere uguale a sé stesso.

Una peculiarità assolutamente apprezzabile e lodevole, in cui risiede la vera grandezza del regista di Mediterraneo, un modus operandi a cui farebbero bene ad ispirarsi anche altri applauditi autori nostrani che, al contrario, continuano a rimanere sempre troppo ancorati ad una comfort-zone che ormai inizia ad avere la stessa consistenza della polvere.

Così dopo aver realizzato Tutto il mio folle amore (2019), una squisita commedia on the road tanto classica quanto emozionante, dopo l’ultra sperimentale e indigesto Comedians (2021), Gabriele Salvatores si ripresenta al pubblico con l’ambizioso Il ritorno di Casanova, audace opera che, come si diceva, coniuga il racconto dai tratti autobiografici ad una dichiarata e divertita riflessione sulla natura stessa dell’arte cinematografica.

Gabriele Salvatores ci trascina nel suo mondo facendo subito una scelta artistica che è anche una lucida e fulminea dichiarazione d’intenti. Una scelta che sa essere tanto drastica e audace quanto banale e scontata. Ovvero quella di contrapporre un mondo a colori ad un altro in bianco e nero. Ne Il ritorno di Casanova il colore diventa una caratteristica esclusiva del cinema, dunque della finzione, a cui si contrappone la vita vera che invece può godere solamente del bianco, del nero e di tutta la scala dei grigi. Quindi, all’atto pratico, Gabriele Salvatores ci propone un film in bianco e nero in cui gli unici intermezzi a colori sono quelli che fanno riferimento al film che il protagonista sta montando.

Una presa di posizione artistica che non lascia di certo sbalorditi, va bene, ma che avremmo anche potuto accettare senza storcere troppo il naso se solo il gioco fotografico fosse stato reso per il meglio. La fotografia invece, firmata da Italo Petriccione, è purtroppo uno dei primi limiti del film, poiché appare poco ispirata proprio nella gestione del bianco e nero. Un bianco e nero che risulta sempre troppo pulito, eccessivamente digitale e luminoso, poco incline a restituire quel senso di oppressione e perdizione in cui vive il protagonista del film.

Scegliendosi come alter ego il depresso e ormai stanco Leo Bernardi, uno stimato regista napoletano che, come possiamo vendere da alcune fotografie in apertura del film ha anche vinto il Premio Oscar (e quindi il carattere autobiografico del racconto si palesa sin da subito), Gabriele Salvatores organizza un discorso piuttosto interessante sull’età che avanza e sulla conseguente paura di non essere più in cima alla classifica. Qualunque essa sia.

Attraverso Leo Bernardi, infatti, l’eterno sperimentatore Gabriele Salvatores sembra esternare l’innata e profonda paura di non essere più un regista al passo con i tempi. Di essere ormai superato, anzi addirittura vetusto, e di dover accettare suo malgrado che è giunto il momento di cedere il passo ad autori più freschi e giovani di lui. Autori che, figli di un cinema nuovo, sono anche autorizzati ad accedere al successo molto prima di quanto abbia fatto lui. Questa è la paura artistica di Leo Bernardi, che individua come sua nemesi il giovane regista Lorenzo Marino che ha avuto la possibilità di accedere alla kermesse veneziana già solo con la sua opera seconda, ma questa è anche una lucida e personale riflessione che lo stesso Salvatores fa nei confronti di un Sistema che oggi tende a forgiare autori con una velocità assai più tempestiva di ieri.

Ad una riflessione sul tempo che passa, sulla vita che scorre e su una modernità che detta sempre nuove regole, Gabriele Salvatores non può risparmiare anche una sua riflessione sull’Amore. E lo fa chiamando in causa un amore che ha più i tratti platonici di quelli carnali, un amore che esplode tra un uomo maturo (sessantenne) ed una giovane contadina che subentra nella vita di Leo per puro caso, quasi come uno scherzo del destino, lì per ricordargli che a qualunque età si può iniziare qualcosa di nuovo e che la modernità non è necessariamente qualcosa da temere.

L’inserimento della storyline romantica, quest’innamoramento etereo tra l’anziano e cinico regista e la pragmatica e brillante contadina, rappresenta il secondo – e più grande – punto debole del film. Appare piuttosto evidente che questa linea narrativa non fosse priorità di Salvatores, più dovuta che sentita, necessaria ad incrementare il parallelismo tra Leo Bernardi e lo stesso Casanova che racconta nel suo film. Un anziano che si infatua di una giovane e che teme, nel suo profondo, d’esser visto solo come un vecchio.

La storia d’amore tra Leo e Silvia, confinata in una linea narrativa atemporale e che ha il sapore di un flusso di coscienza e ricordi, è gestita in modo fin troppo approssimativo. Procede attraverso step poco sentiti, e di conseguenza poco sinceri, mal resi a causa di una sceneggiatura che mette in bocca ai due personaggi dialoghi poco credibili. Anche un po’ cringe, per dirlo alla maniera dei “più giovani”. Il personaggio di Silvia, interpretato da una brava ma forse fuori parte Sara Serraiocco, è delineato in modo molto macchiettistico e sciocco, dovrebbe apparire come una donna di polso ed emancipata ma, in realtà, è raccontata come una donna oggetto che non fa altro che dire/fare cose utili a compiacere la mascolinità del protagonista.

Con Il ritorno di Casanova Gabriele Salvatores firma un’opera cinematografica che ha quasi la costruzione d’una matrioska: un film, nel film, nel film. Tre strati di cinema che si intersecano fra loro, una gigantesca riflessione meta-cinematografica che, tuttavia, convince poco proprio a causa di un semplicismo di fondo che non riesce a stare al passo delle ambizioni. L’intento alla base dell’opera era molto elevato ma il risultato finale, di contro, è un film estremamente semplice sia sul piano narrativo che su quello della messa in scena. Ogni cosa risulta fin troppo elementare ne Il ritorno di Casanova, tutto ha il sapore di un’idea poco più che abbozzata e non veramente approfondita (non a caso, malgrado la mole di temi contenuti all’interno, il film dura solamente 95 minuti).

Ironia della sorte, a convincere maggiormente ne Il ritorno di Casanova è proprio Il ritorno di Casanova, ovvero il film nel film che il regista Leo Bernardi sta cercando di finire. Potendo contare anche sulla performance di Fabrizio Bentivoglio, che è un po’ l’attore feticcio di Salvatores nonché un Casanova perfetto, i momenti dichiaratamente filmici ambientati ad inizio ‘900 sono quelli in cui Salvatores sembra ostentare maggior ispirazione. Potremmo dire ironicamente che Il ritorno di Casanova diretto da Leo Bernardi si palesa come un’opera assai più moderna de Il ritorno di Casanova diretto da Salvatores. Attraverso un bizzarro mix tra il Barry Lyndon di Kubrick e La favorita di Lanthimos, quello con protagonista Bentivoglio è un Casanova che avremmo sicuramente preferito vedere.

Il cast, oltre ai già citati Sara Serraiocco e Fabrizio Bentivoglio, è capitanato dall’ingombrante presenza di un Toni Servillo bravissimo ma sempre un po’ troppo uguale a sé stesso nel restituire un uomo arrogante e nevrotico, tanto depresso quanto cinico. Confinati in ruoli secondari, anche alcuni affezionati di Salvatores come Antonio Catania, Natalino Balasso e il duo comico Ale e Franz (questa volta impegnati in momenti separati del film).

In definitiva, un po’ come ormai è solito aspettarsi da Gabriele Salvatores, Il ritorno di Casanova è un prodotto anomalo che sembra riuscito solo in parte. Sicuramente più apprezzabile nelle intenzioni che nell’esecuzione. Un film che fa di tutto per apparire originale, moderno e intelligente ma alla fine, stringi e stringi, rivela un animo vecchio e decisamente superato. Forse Leo Bernardi è davvero l’alter ego perfetto di Gabriele Salvatores.

Giuliano Giacomelli

PRO CONTRO
  • La voglia di Gabriele Salvatores di confrontarsi con un cinema dal linguaggio narrativo sempre diverso.
  • La riflessione sul tempo che passa, sul moderno che avanza, applicato al mestiere cinematografico.
  • Il ritorno di Casanova diretto da Leo Bernardi con un eccezionale Fabrizio Bentivoglio.
  • Visivamente non è assolutamente bello come vorrebbe a causa di una fotografia che non lavora bene sul bianco e nero.
  • La storyline a tema romantico è gestita male e risulta brutta anche a causa di pessimi dialoghi.
  • Nel complesso, il film vero è meno bello del film finto che stanno realizzando nel film. E questo è ovviamente un problema.
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