Non aprite quella porta: ritratto di famiglia con motosega
Per festeggiare i primi 50 anni di Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre), Midnight Factory, etichetta specializzata in cinema horror e fantastico proprietà di Plaion Pictures Italia, riporta al cinema il capolavoro di Tobe Hooper con un’uscita evento di tre giorni (23-24-25 settembre 2024) che propone il film nella sua versione restaurata in 4K e in lingua originale (con sottotitoli in italiano). Un restauro magnifico che spinge fortissimo dal punto di vista audio con effetti sonori impressionanti che trovano il picco nel rombare della motosega e nei suoni cacofonici e stridenti che sembrano emulare il flash di una macchina fotografica o la lama che sega le ossa. Dal punto di vista visivo, invece, troviamo tutta la pastosità della pellicola, con quella grana caratteristica che si fa particolarmente “rumorosa” nelle scene notturne in esterno, restituendo quel sapore rustico e documentaristico della pellicola 16mm.
Per l’occasione di questo evento cinematografico, vogliamo tornare ad analizzare la magnifica opera barocca e grottesca che l’allora ventottenne texano Tobe Hooper ha diretto nel 1974 cambiando per sempre l’immaginario orrorifico cinematografico. Ma visto che in questi cinque decenni molto si è detto e tanto si è scritto su questo magnifico film, qui prenderemo in esame solo una tematica importantissima del film, ovvero l’istituzione famigliare e come l’opera di Tobe Hooper la riscrive totalmente attraverso personaggi iconici e sopra le righe, celebrandone definitivamente la sua completa degenerazione.
Ancora oggi citato, riciclato e ispiratore di numerosissime pellicole di genere, Non aprite quella porta rappresentò all’epoca della sua uscita un controverso documento d’identità delle insicurezze che l’uomo americano si trovava ad affrontare quotidianamente. Il film di Hooper si rivolgeva infatti soprattutto alla società del profondo Sud degli Stati Uniti, una società rurale per alcuni versi ancora arretrata che si trovava ad affrontare le vicissitudini di una modernizzazione sempre più repentina, amplificata dai numerosi sconvolgimenti socio-culturali di quegli anni. Un Sud arretrato che già da alcuni anni si era visto sottrarre manodopera ed era in crisi di valori, in cui l’automazione postindustriale aveva progressivamente mutato il lavoro nei campi e nelle fabbriche, creando disoccupazione e disagio negli animi di coloro che si vedevano eredi della Guerra di Secessione.
Il film di Hooper, con un piglio di macabro compiacimento, non fa altro che descrivere con tecnica da cinema diretto (ovvero il cinema documentaristico degli anni ’60) la depravazione morale scaturita in una sub-società che negli ambigui rapporti familiari e nell’ammodernamento societario trova il completo sfogo di una violenza insita e repressa, comunemente espressa nella pratica della macellazione animale. Hooper, infatti, ci mostra questa stramba famiglia che a detta di uno degli stessi membri si è improvvisamente trovata disoccupata a causa dell’automazione del processo di macellazione, trovando fonte economica e alimentare altrove, in quell’altrove costituito dal pascolo di esseri umani sui quali sfogare la propria perversa rabbia e depravazione.
Non aprite quella porta, così come era accaduto due anni prima nell’altrettanto seminale L’ultima casa a sinistra di Wes Craven, si apre con una didascalia che ha il compito di sottolineare come gli eventi narrati nel film non siano frutto della fantasia degli autori, ma il resoconto di un fatto realmente accaduto e che è considerato “il crimine più efferato della storia americana, passato alla storia come il Massacro della motosega del Texas”. La didascalia ha il merito di contestualizzare e storicizzare le immagini filmiche ma, proprio come accadeva nel film di Craven, anche questa pellicola non è basata su una storia vera, o meglio, lo è solo in parte. Infatti, Non aprite quella porta si ispira alle gesta di Ed Gein, un maniaco necrofilo e assassino che agì negli anni ’50 a Plainfield, nel Wisconsin, ma i riferimenti al reale killer si limitano lontanamente alla figura di Leatherface e ai macabri orpelli con cui è addobbata la casa che fa da set alla storia.
Il film racconta la vacanza di cinque giovani che finiscono trucidati, a causa della loro curiosità, da una famiglia di cannibali che agisce nelle campagne texane.
La famiglia, come è già accaduto ne L’ultima casa a sinistra e spesso succederà in seguito, è proposta sotto una duplice varietà, una contrapposizione tra clan negativo e clan positivo dove quest’ultimo viene mostrato in un’ambigua veste di perversione intrinseca. Infatti, alla perversa e mortifera famiglia di cannibali si trova contrapposto un mini-nucleo composto da Sally (Marilyn Burns) e Franklin Hardesty (Paul Partain), due fratelli profondamente antitetici: bella e fragile lei, paraplegico e scontroso lui. Il rapporto tra i due fratelli potrebbe essere letto come sinonimo di un’incestuosità latente, ravvisabile soprattutto nell’atteggiamento scontroso di gelosia che Franklin dimostra quando sua sorella si intrattiene con Jerry (Allen Danziger), uno dei ragazzi della comitiva. Il personaggio di Franklin è, infatti, l’elemento destabilizzante del mini-nucleo familiare presentato nel film: la sua situazione fisica, che lo paralizza su una sedia a rotelle, costituisce un pericolo per se stesso e per l’intera comitiva; inoltre il suo morboso interesse per le pratiche di macellazione degli animali, mostrate nel discorso con uno dei personaggi negativi, lo avvicina concettualmente proprio al clan cannibale. Sally rappresenta invece la bellezza prorompente che costituirà una vera icona per il cinema horror, spesso rappresentando la vittima sacrificale che si è macchiata di peccati e dunque è destinata ad essere punita dalla furia omicida del killer; anche se in questo caso è chiamata a rivestire il ruolo che nello slasher movie tipicamente anni ’80 sarà rappresentato dalla virginale e bruttina di turno destinata a sconfiggere il mostro e salvarsi, la cosiddetta final girl.
Il clan cannibale è formato da quattro elementi, tutti maschi, capeggiati da un individuo apparentemente normale, riconosciuto nominalmente con il ruolo che svolge all’interno del nucleo familiare: Cuoco (Jim Siedow, unico attore professionista del cast). Questo personaggio appare inizialmente allo spettatore come pacifico gestore di una stazione di servizio e possibile baluardo di salvezza quando Sally si ritroverà unica sopravvissuta alla furia omicida di Leatherface. D’altro canto, si era contraddistinto come ammonitore di un possibile futuro pericolo, dicendo ai ragazzi protagonisti di fare attenzione, quindi potenzialmente affidabile agli occhi dei protagonisti e dello spettatore. Ma ben presto il suo ruolo subisce un repentino mutamento e da complice si trasforma in antagonista, rivelando la sua appartenenza alla famiglia di invasati.
Il Cuoco continua però a mantenere un atteggiamento sottilmente ambiguo, poiché piuttosto che partecipare alle molestie che Sally riceve nella scena finale dal resto del clan, si mostra indignato ed estraneo alla pratica dell’omicidio, accusando i suoi fratelli e, a sua volta, essendo accusato da loro come estraneo alle tradizioni familiari.
Il personaggio del Cuoco subirà un parziale mutamento nel sequel del film, Non aprite quella porta – Parte 2 (The Texas Chainsaw Massacre 2, 1986), sempre diretto da Hooper. Qui gli viene dato un nome e un cognome, Drayton Sawyer (che, curiosamente, è il nome dello zio di Tobe Hooper), e la sua professione familiare viene promossa a professione “istituzionale”; infatti, Drayton per vivere esercita realmente la professione del cuoco e le sue prelibatezze a base di carne umana non mancano di riceve riconoscimenti in feste di paese. Il ruolo di Cuoco/Drayton muta da semi-estraneo alle tradizioni familiari a complice ed esecutore a tutti gli effetti, capace qui di consolidare anche l’unione familiare in una frase divenuta simbolo dell’universo familiare descritto in questa saga: “Il sesso è…chissà che cazzo è! Ma la sega…la sega è la famiglia”. Le parole sono rivolte al suo fratello minore Leatherface, qui invaghitosi di una ragazza “normale” e dunque sviato dalla pratica di mattanza (con motosega) a cui era abituato.
Anche Leatherface, dunque, subisce una fondamentale trasformazione tra primo e secondo film della saga. Nel film del 1974 viene descritto da Hooper come un ragazzone ritardato, recluso dai suoi fratelli nella fattoria a compiere mansioni domestiche come se si trattasse di “un’orrida e asessuata parodia della casalinga in una famiglia tutta al maschile”, per citare il saggio di Fabio Zanello, Il cinema di Tobe Hooper. Qui Leatherface ha un ruolo quasi marginale, anche se sostanzialmente a lui sono attribuibili le gesta più significative dell’intero film, ma si può intuire la sua condizione di sottomissione e un’ambigua sessualità che contrappone alla sua imponenza fisica un’identità espressa attraverso delle facce femminili.
Infatti, Leatherface non mostra mai il suo vero volto, ma si presenta sempre nascosto da macabre maschere di pelle umana – da cui il suo soprannome – e in questo primo film ne sfoggia tre, di cui le ultime due (indossate prima e durante la scena della cena che costituisce il climax del film) riproducono fattezze femminili. L’ambiguità sessuale di questo personaggio viene però sfatata nel secondo film, in cui Leatherface (che anche acquista un nome proprio: Bubba Sawyer) è mostrato esclusivamente come un mascolino e brutale esecutore, dal volto sempre uguale e capace anche di mostrare sentimenti amorosi verso una donna, Stretch (Caroline Williams), la dj protagonista del film. Da questo film emerge un Leatherface romantico ravvisabile nella scena del valzer e nel “pegno d’amore” che il mostro dona alla ragazza, una sanguinolenta maschera di pelle che dovrebbe “normalizzarla” agli occhi del mostro, adeguandola al suo standard estetico. Ma emerge anche un Leatherface dalla sfrenata voglia sessuale, una sessualità repressa ed esprimibile solamente attraverso il brutale e perverso linguaggio della violenza: nel primo incontro tra l’assassino e Stretch. Leatherface aggredisce la donna e tenta un approccio sessuale con lei, brandendo la motosega e spingendola verso il suo pube, mimando l’atto sessuale. Daniela Catelli in Ciak si trema ha intravisto in questa scena una freudiana metafora della simbologia fallica ma, pur supportando questa tesi, si potrebbe anche spostare l’attenzione sul personaggio di Stretch che per Leatherface rappresenta i bisogni primari, ovvero l’eros e il cibo, e sottolineare il fatto che risparmiandola permette al primo di vincere sul secondo.
Terzo membro della famiglia simbolo della devianza cinematografica è l’Autostoppista (Edwin Neal), terzo fratello dal comportamento irrequieto e infantile, introdotto in una delle scene chiave del film in cui viene caricato a bordo del pulmino Volkswagen su cui viaggiano i cinque protagonisti. Scopriamo che l’Autostoppista ha lavorato come macellaio nel mattatoio ormai automatizzato e lui stesso riferisce che la sua intera famiglia ha perso il lavoro a causa dell’industrializzazione nella macellazione della carne bovina; inoltre scopriamo che il personaggio ha delle tendenze necrofile poiché si lascia intendere, attraverso la polaroid che custodisce, che è proprio lui il profanatore di tombe di cui si parla in apertura del film, poi confermato dalla sua prima interazione su schermo con il Cuoco.
Insomma, il progresso industriale inquadrato come causa della devianza e della perversione. Un’identità rigida, tipica della modernità industriale, che persi i suoi punti di riferimento non appare in grado di ricostruirsi un ruolo nella società se non come “scheggia impazzita” al suo interno.
L’Autostoppista è l’unico membro della famiglia cannibale che viene ucciso, ma Hooper lo ripropone, anzi lo duplica, nel sequel; infatti, in Non aprite quella porta – Parte 2 l’Autostoppista torna sotto forma di cadavere mummificato che regna in più di una scena come vero membro della famiglia, ma viene anche “clonato” poiché Hooper introduce un nuovo fratello, Chop-Top (Bill Mosley), dalle sembianze molto simili all’Autostoppista tanto da far intendere che sia il suo fratello gemello. Chop-Top è un reduce del Vietnam che esibisce un’oscena placca di metallo sul cranio, un mostro amplificato dalla mostruosità della guerra.
L’ultimo membro della famiglia è il Nonno, un individuo semi-mummificato che viene puntualmente riesumato per il gran bacchetto finale, il senex a cui è immolata la vittima sacrificale, la giovane e avvenente ragazza della quale viene offerta la nuca da sfondare a martellate, come la tradizione di una famiglia di macellai impone.
Tutti i membri della famiglia, a cominciare da Leatherface, sono poi strettamente collegati all’ambiente domestico in cui vivono, un ambiente macabro e necroforo in cui ossa umane e animali, capelli ed epidermide fungono da orpelli e mobilia, una casa addobbata a morte, una casa che indossa la morte così come Leatherface indossa le immonde maschere di carne.
Il film di Hooper riflette sulla famiglia e la trasfigura in una dimensione paradossalmente surrealista, in cui la violenza assume toni talmente crudi e realistici da disturbare profondamente lo spettatore, ma allo stesso tempo la perversione grottesca e il comportamento quasi clownesco di alcuni personaggi ne smorzano la realisticità sul piano documentaristico.
Quella descritta da Hooper è una famiglia ottocentesca che crede nei miti della frontiera, nella difesa personale e della proprietà: i cinque giovani sono colpevoli di aver invaso e violato il loro territorio domestico, si rivelano una minaccia e per questo vengono puniti. Ma allo stesso tempo la famiglia di Leatherface risponde alle esigenze e alle regole del mondo capitalista: produrre (carne), consumare (carne), impiegare la propria specializzazione (la macellazione), evitare gli sprechi (nulla si butta nel processo di lavorazione della carne, come spiega anche l’Autostoppista alla sua prima apparizione).
La dimensione capitalista diventa la vera vocazione della famiglia cannibale in Non aprite quella porta – Parte 2, subito sottolineata dal business intrapreso dai membri della famiglia nella lavorazione e nel commercio della carne umana, venduta e fatta mangiare inconsapevolmente proprio agli esseri umani. La disoccupazione causata dal progresso degli anni ’70 si trasforma così in cinico rampantismo sociale negli anni ’80, in cui è facile leggere una sottile critica al consumismo, tendenza tipica di quegli anni. La vocazione imprenditoriale dei freaks hopperiani si inserisce in un contesto che preferisce al crudo realismo del primo film un’aperta ironia che sfocia spesso nel grottesco e nella farsa, concedendosi anche ampie dosi di splatter.
Malgrado il grande successo internazionale e i riconoscimenti nei vari festival (Premio della Critica al Festival del Cinema Fantastico di Avoiraz nel 1976; Palma d’oro al Festival di Anvers), Non aprite quella porta fu bandito in diversi Paesi tra cui la Francia, che lo sdoganò solo nel 1981, e l’Inghilterra che, come di consueto, lo inserì nei “Nasty videos” e lo distribuì solamente nel 2000. Nel 1990 Non aprite quella porta è stato inserito nella Horror Hall of Fame e fa parte della collezione permanente del Museum of Modern Art di New York.
A cura di Roberto Giacomelli
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