Il peggio di Venezia 74: The Devil and Father Amorth, The Private Life of a Modern Woman, Caniba

The Devil and Father Amorth

The Devil and Father Amorth è stato il primo film che ho visto a questa 74 Mostra del Cinema di Venezia. Le aspettative erano grandi: un documentario molto particolare girato da William Friedkin. Se il nome vi sembra familiare è perché Friedkin ha firmato uno dei classici dell’horror più amati, un film che ha fatto storia facendo passare notti insonni a diverse generazioni. Anche se l’horror non è il vostro genere avrete di sicuro sentito parlare de L’esorcista e avrete anche ben in mente alcune scene in particolare. Da questo si può facilmente immaginare l’attesa per un documentario che torna a sondare il male in una delle sue forme più pure, andando a interpellare niente meno che Padre Amorth, forse il più importante esorcista del Vaticano.

Il film parte da quegli stessi luoghi divenuti iconici grazie a L’esorcista fino ad arrivare a Roma. Friedkin segue uno degli ultimi casi di Padre Amorth, una ragazza afflitta dal demonio al suo nono esorcismo, esorcismo che Friedkin ha il permesso di registrare.

Un esorcismo ripreso in video.

È qui che questa pellicola breve comincia a sfaldarsi, perdendo quel poco appeal che era riuscita a conquistarsi nei primi minuti di visione. Si, perchè questo film non è semplicemente inutile e dimenticabile ma diventa di fatto un importante precedente negativo nella carriera di un grandissimo regista. Riprese fin troppo amatoriali, domande tendenziose e scelte registiche opinabili vanno a formare un desolante quadro generale.

Il “caso” che Friedkin propone, ammantato con tutto il kit dell’horror perfetto (musica agghiacciante in aggiunta a un voice over con frasi ad effetto), viene fatto passare per una vera e propria prova del sovrannaturale senza neanche fornire una seconda versione dei fatti. No, mi correggo. L’altro lato della campana viene portato a video dalla voce di esperti neurologi o psichiatri che danno la loro visione del fenomeno: Friedkin sembra non sentire quello che i suoi stessi intervistati dicono alla videocamera, prendendo le loro parole come l’ennesima prova inconfutabile.

È fin troppo chiaro, dunque, quale sia il messaggio del regista e la composizione di queste interviste e reportage non fa nulla per dare uno sguardo d’insieme allo spettatore: Friedkin non permette che traiamo le nostre personali conclusioni di fronte ai fatti che ci riporta ma vuole convincerci, cosa che un documentario mai dovrebbe fare, che lui possieda la verità. Se questa verità è, poi, che l’esorcismo e le sue implicazioni sovrannaturali esistano realmente allora abbiamo un problema ancora più grosso.

Non vi è neanche una messa in scena dignitosa che possa giustificare la visione di questo “documentario” ma vengono anzi proposte immagini buone solo per una telenovela pomeridiana. Questo film entra di diritto nella lista dei peggiori visti a Venezia. Un peccato, un vero peccato.

The Private Life of A Modern Woman

Pensavo di aver già dato con The Devil and Father Amorth. E invece arriva The Private Life of a Modern Woman a rimescolare le carte in tavola. Comincerei, come sono solita fare, dalla trama.

Una donna (intuiamo un’attrice) uccide per legittima difesa l’ex fidanzato appena uscito di prigione che voleva un mucchio di soldi per la cauzione. Invece di andare alla polizia, lo nasconde in un grande baule azzurro Tiffany e continua la sua giornata. Il campanello suona molte volte e ogni genere di personaggio appare alla sua porta: il fidanzato che viene mollato, il “collega” preoccupato per lei, il poliziotto che cerca l’ex fidanzato, la madre e il nonno affetto da alzheimer. In tutto questo riesce anche a liberarsi del baule buttandolo nel mare. Fine. L’inutilità fatta film.

Una storia che non si regge in piedi portata sullo schermo con una messa in scena forzatamente avanguardista, dialoghi che non stanno né in cielo né in terra, vuoti, prolissi, ricchi di pause ingiustificate. L’apice viene raggiunto con il “collega” di nero vestito che altri non è che il regista stesso. Dieci, quindici minuti di nulla, un dialogo che sembra strutturato per imitare un’intervista con un giornalista che non sta neppure tanto simpatico e che risulta essere una gran seccatura.

Raramente ho provato tanto fastidio durante un film. Un fastidio accresciuto da una colonna sonora ingombrante e ingiustificata, musica classica vigorosa che rimbomba nelle orecchie insinuandosi fra le battute dei personaggi, rendendole in alcuni casi incomprensibili (cosa che, a conti fatti, potrebbe quasi risultare positiva).

L’unico che salva questa barcarola malandata e che merita una scialuppa di salvataggio è Alec Baldwin, il poliziotto che indaga sull’insipida Sienna Miller e che riesce a dare una performance che brilla in mezzo all’apatia di tutto il resto del film. Salvati, Alec, e lascia naufragare The Private Life of a Modern Woman in mezzo ai flutti, sperando che non sia mai più ritrovato.

Caniba

Pensavo di aver già dato con The Devil and Father Amorth. Pensavo che con The Private Life of a Modern Woman avessi toccato il fondo. Ma poi è arrivato Caniba.

Cominciamo dalla trama: un giapponese che anni e anni fa, a Parigi, ha ucciso e parzialmente mangiato una donna che lo aveva rifiutato. Indaghiamo nelle sue perversioni. Punto.

Peccato che il cosiddetto cannibale non parli quasi mai in un film composto solo da primissimi piani, focus su dettagli dei volti e sfocature. Un’ora e mezza che sembra durare una vita.

L’argomento, anche interessante, viene a malapena trattato, non c’è indagine, non c’è approfondimento, non c’è storia, non c’è struttura. Sono solo un’accozzaglia di immagini e parole montate insieme per dare una semi parvenza di discorso logico.

I primissimi piani, il fatto che lo spettatore non possa mai allontanarsi da un viso, che disturba quando nitido e che irrita quando sfuocato, aumenta l’urgenza con cui il pubblico vuole allontanarsi da quello che sta vedendo. Il momento più alto è quando salta fuori un filmino porno, databile alla giovinezza del cannibale, in cui ne succedono di ogni e i pixel riescono a far intuire tutto. Questo è il punto più alto.

Il fastidio maggiore viene raggiunto quando il cannibale, ormai malato e bisognoso di cure costanti, mangia. I suoni della masticazione, la deglutizione, il risucchio, lo schiocco delle labbra vengono innumerevolmente amplificati diventando l’equivalente “culinario” di un rubinetto che perde: con un tic nervoso all’occhio lo spettatore guarda l’orologio per vedere quanto manca alla fine.

A cura di Michela Marocco

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